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PROPOSTA DI LEGGE NAZIONALE N. 2

CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA
XV LEGISLATURA

PROPOSTA DI LEGGE NAZIONALE N. 2

presentata dai Consiglieri regionali
RUBIU – OPPI – PINNA Giuseppino – TATTI

il 7 aprile 2014

Introduzione nella legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), dell’articolo 54 bis concernente “Istituzione di un’assemblea costituente per la riscrittura dello Statuto – Carta costituzionale del popolo sardo”


RELAZIONE DEL PROPONENTE

Il dibattito sull’autonomia speciale, riconosciuta alla Sardegna con legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, inizia immediatamente dopo la presa di coscienza del ruolo che la Regione doveva esercitare in seno alla comunità isolana e nell’ambito dello “Stato” regionale quale configurato dalla Costituzione.

È utile ricordare brevemente le fasi più importanti del dibattito che ha condotto, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, alla piena consapevolezza che l’autonomia regionale era insufficiente a risolvere i complessi problemi della società, dell’economia e dell’autogoverno della Sardegna.

Con l’entrata in vigore della Carta costituzionale è stato profondamente mutato il sistema politico-istituzionale con la previsione dell’ istituzione dell’ordinamento regionale.

Sia pure nelle contraddizioni e ambiguità dell’originario disegno costituzionale, il ruolo assegnato alle regioni nella trasformazione del precedente assetto statale appariva delineato con sufficiente chiarezza: esse avrebbero dovuto far parte di un sistema in cui i poteri locali, dotati di una loro autonomia, risultassero ben distinti ed eventualmente contrapposti al potere statale, capaci di essere “l’istituto storico della libertà politica” (Fulvio Dettori, “Lo statuto sardo. Il disegno autonomistico e la sua attuazione”).

Nel disegno costituzionale le regioni erano considerate, non già entità subordinate e sussidiarie rispetto allo Stato-persona, bensì entità autonome poste sullo stesso piano dell’apparato centrale. L’articolo 5 della Costituzione stabiliva fosse compito del potere statale riconoscere e promuovere le autonomie locali e adeguare i principi e i metodi della legislazione nazionale alle esigenze di autonomia e di decentramento.

La Carta costituzionale prefigurava, dunque, lo “Stato regionale” compartecipe, unitamente allo Stato, della potestà legislativa e amministrativa, individuata per materie, fino ad allora riservate al potere centrale.

Si ponevano, così, le premesse per una rivoluzione dei rapporti tra Stato governante e società governata, in cui le regioni, insieme agli altri enti locali, avevano il compito di scardinare il modo di essere unilaterale dello Stato creando rapporti di integrazione, se non di identificazione, tra Stato e società. La Regione doveva svolgere, cioè, un ruolo politico di mediazione fra i pubblici poteri, onde consentire che l’assunzione delle decisioni per la comunità fosse equamente distribuita e diffusa in tutto il territorio.

L’autonomia politica che la Costituzione aveva riconosciuto alle regioni si può sintetizzare in quattro diverse figure, tra loro complementari: 1. l’autonomia statutaria; 2. l’autonomia legislativa; 3. l’autonomia amministrativa; 4. l’autonomia finanziaria.

Oltre queste caratteristiche comuni a tutte le regioni, la Regione Sardegna era qualificata anche come una Regione a Statuto speciale, ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, al pari della Sicilia, Valle d’Aosta Trentino-Alto Adige e Friuli Venezia Giulia.

Tali regioni, fin dalle previsioni del vecchio testo costituzionale, godevano di un regime differenziato rispetto a quello previsto per le regioni di diritto comune; in particolare, con riferimento all’autonomia statutaria, mentre le regioni ordinarie avevano uno statuto deliberato a maggioranza assoluta dal Consiglio regionale ed approvato con legge ordinaria del Parlamento, ai sensi del vecchio testo dell’articolo 123 della Costituzione, le regioni a Statuto speciale avevano uno statuto approvato con legge costituzionale, che godeva, quindi, di una maggiore forza nel sistema delle fonti giuridiche.

Con riferimento alla potestà legislativa e amministrativa, il disegno costituzionale originario, prevedeva che alle regioni venissero attribuiti poteri individuati e circoscritti facendo riferimento a “materie” che, per il loro significato giuridico, dovevano essere intese in modo assai ampio e organico (agricoltura, urbanistica, industria, turismo, ecc.).

In altri termini, i settori costituzionalmente riservati all’intervento delle regioni erano individuati facendo riferimento non già a competenze (ossia ad atti il cui contenuto è preliminarmente circoscritto e delimitato in maniera puntuale e specifica), ma ad attribuzioni, a sfere di attività di carattere generale che dovevano comprendere tutte le competenze inquadrabili in ogni materia. All’interno di tali materie, i poteri delle regioni dovevano essere sostitutivi e riservati rispetto a quelli dello Stato, il quale però poteva sindacare le scelte compiute dalla Regione nell’esercizio dell’attività legislativa e del conseguente indirizzo amministrativo.

Questo, tuttavia, non significava per lo Stato l’impossibilità di intervenire nell’ipotesi in cui il potere regionale travalicasse i limiti costituzionalmente stabiliti. Allo Stato veniva, infatti, riconosciuto il potere di dettare “i principi fondamentali” cui le regioni dovevano ispirare l’attività legislativa e amministrativa nelle materie loro attribuite.

Con riferimento alle regioni a Statuto speciale, i poteri regionali non dovevano essere vincolati al rispetto dei criteri direttivi imposti dallo Stato, ma al più vasto e generale limite dei principi dell’ordinamento giuridico.

Altri vincoli, giuridici e politici, condizionavano l’attività regionale: sul piano giuridico esse dovevano legiferare nel rispetto degli obblighi internazionali assunti dallo Stato e dei principi delle grandi riforme economico-sociali deliberate in sede nazionale; sul piano politico, invece, la loro azione doveva rispettare gli “interessi nazionali”. L’inosservanza di tali limiti consentiva al Parlamento di intervenire per impedire l’entrata in vigore della legge regionale che fosse in contrasto con gli interessi generali del Paese.

L’originario intento del legislatore costituente di realizzare uno “Stato regionale” veniva, invece, contraddetto dall’indirizzo politico adottato dal Governo e dalle burocrazie statali, che si manifestava in modo assai restrittivo rispetto all’autonomia regionale.

L’originaria concezione dello Stato come “Stato regionale” veniva volutamente accantonata per circa vent’anni, nel caso delle regioni di diritto comune o completamente stravolta in senso antiautonomistico, nel caso delle regioni a Statuto speciale.

Lo strumento utilizzato dal potere centrale per ridimensionare il ruolo e il potere delle regioni era rappresentato dalle norme di attuazione dei rispettivi Statuti, che avveniva attraverso l’emanazione di decreti legislativi atipici, predisposti da un’apposita Commissione ed emanati dal Governo, con cui lo Stato trasferiva alle regioni a Statuto speciale le funzioni amministrative, gli uffici e il personale, necessarie al concreto esercizio delle loro competenze.

L’attribuzione allo Stato della competenza all’emanazione di tali decreti di attuazione, collegata all’interpretazione secondo cui il valido esercizio delle competenze, anche normative, delle regioni fosse subordinato alla previa emanazione delle norme di attuazione medesime, ha fornito allo Stato un efficace strumento di compressione dell’autonomia regionale, permettendogli di procrastinare l’effettivo trasferimento alle regioni delle funzioni ad esse attribuite dagli Statuti.

La tecnica utilizzata per privare le regioni dei poteri costituzionalmente riconosciuti era quella del ritaglio: lo Stato, cioè, individuava i settori di ciascuna materia regionale che dovevano essere disciplinati in maniera unitaria e stabiliva quali funzioni non potevano essere trasferite alle regioni, ma conservate dagli apparati politici e burocratici del Governo centrale.

La potestà legislativa e amministrativa delle regioni, veniva, dunque circoscritta a quella parte di materia o sub-materia sulla base di valutazioni del tutto discrezionali condotte dagli organi statali.

La continua ingerenza del Governo sulle regioni a Statuto speciale era, altresì, avallata dalla Corte Costituzionale che, con riferimento ai conflitti tra Stato e Regione, accettava le scelte accentratrici perseguite dal potere centrale, contribuendo in modo determinante a rendere effettivo “il distacco dell’istituto regionale dalla sua previsione costituzionale ” (F. Dettori, op. cit, p. 30).

Occorre aggiungere, peraltro, che le decisioni della Corte erano intervenute nell’ambito di una situazione normativa già ampiamente condizionata dagli organi del potere centrale. Non si trattava di intervenire in un campo ancora integro e aperto a tutte le possibilità, ma di scegliere se disattendere gli interventi legislativi compiuti, attribuendo potere ad un istituto nuovo, quale quello regionale, oppure confermare il modello pre-costituzionale di Stato accentrato conosciuto e consolidato che la classe dirigente post-fascista aveva riproposto.

Altro dato significativo che occorre segnalare rispetto al ridimensionamento del ruolo regionale, era che le stesse regioni, in particolare quelle a Statuto speciale, si erano trovate impreparate ad amministrare l’ampiezza delle proprie competenze costituzionali, ad eccezione di quelle limitate alla mera attività amministrativa. In particolare, la Sardegna nell’esercizio dell’attività legislativa non si era mai proposta di modificare la legislazione statale, se non apportando dei correttivi parziali e marginali.

Pur nei limiti circoscritti di tali competenze, le regioni a Statuto speciale mantenevano comunque una posizione di privilegio rispetto alle regioni di diritto comune, le quali, nei vent’anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, non vedevano riconosciuta la loro posizione istituzionale all’interno dell’ordinamento.

Solo con la legge 16 maggio 1970, n. 281, lo Stato, rispondendo alle numerose istanze locali, dava attuazione alle regioni a Statuto ordinario e con i decreti delegati del ’72 iniziava il trasferimento di funzioni e competenze fino ad allora esercitate dagli apparati centrali e periferici dello Stato.

Ciò faceva emergere il problema della posizione e dei compiti delle autonomie regionali speciali nel quadro dell’ordinamento dello Stato (F. Dettori, op. cit. p. 30).

Le regioni a Statuto speciale, originariamente dotate di maggiori garanzie e più ampi poteri, venivano a trovarsi in una posizione di svantaggio rispetto alle regioni di diritto comune, cui i decreti legislativi del ’72 avevano riconosciuto un insieme di poteri assai più ampio di quello riservato alle regioni speciali dalle norme di attuazione statutaria.

Con l’obiettivo di porre fine ad una palese situazione di disparità, con il decreto del Presidente della Repubblica 22 maggio 1975, n. 480, veniva trasferito alla Sardegna un considerevole numero di funzioni amministrative, che consentivano l’adeguamento della normativa di attuazione statutaria ai decreti, che tre anni prima avevano trasferito analoghi poteri alle regioni a Statuto ordinario.

Contestualmente a tale adattamento, tuttavia, il Parlamento, con l’approvazione della legge delega del 22 luglio 1975, n. 382, dava l’avvio alla riforma, non solo delle regioni di diritto comune, ma anche all’intero sistema di organizzazione delle autonomie locali.

Le disposizioni della legge di delega n. 382 del 1975 e del successivo decreto legislativo n. 616 del 1975 emanato dal Governo, tuttavia, trovavano applicazione solo con riferimento alle regioni a Statuto ordinario. Si generava, così, una corsa continua delle regioni a Statuto speciale per il raggiungimento di competenze analoghe a quelle riconosciute dall’apparato centrale alle regioni di diritto comune.

Emergeva in tutta chiarezza che si era arrivati ad un punto di svolta e che, con gli strumenti a disposizione, non si era in grado di governare le tensioni della società, di negoziare con le strutture centrali, con il Governo e con il Parlamento, né di superare le resistenze e le difficoltà con le strutture locali.

Il dibattito culminava nella Regione sarda nella proposta di programma che prese il nome di “Progetto autonomistico”. Il documento programmatico e la proposta di Giunta di unità autonomista trovarono largo consenso nell’opinione pubblica. Essi si basavano su due pilastri fondamentali: l’esistenza di un’identità specifica del popolo sardo, peculiare e diversa rispetto alla comune identità nazionale e, come logica conseguenza, l’esigenza di un livello istituzionale corrispondente.

Tale progetto veniva bloccato dalle particolari condizioni politiche del momento che non rendevano possibile una collaborazione governativa e, nel 1984 la Giunta regionale otteneva dal Governo la costituzione di una Commissione mista Stato-Regione con lo scopo di avviare lo studio della revisione dello Statuto.

Con il documento approvato nella seduta del 9 aprile 1986, in previsione del sopralluogo della Commissione parlamentare per le questioni regionali nell’ambito dell’indagine conoscitiva promossa su “I rapporti tra Stato, regioni a Statuto speciale e Province autonome “, la prima Commissione permanente “Autonomia, ordinamento regionale, enti locali” sosteneva che “Nonostante sia stata da più parti avanzata opinione favorevole alla omogeneizzazione dell’intero sistema regionale (secondo quanto già è avvenuto sul piano pratico), le ragioni e i presupposti economico sociali e culturali della “specialità” non solo non hanno perduto il loro originario valore politico-istituzionale, ma addirittura sono venuti assumendo valenze e risvolti nuovi in correlazione allo svilupparsi e affinarsi di orientamenti culturali che considerano “le diversità” come fattori positivi da salvaguardare e da valorizzare, anziché, come si riteneva in passato, elementi negativi da sopprimere ed eliminare. Pur senza entrare nel dettaglio, appaiono evidenti le ragioni che hanno indotto ad una disciplina differenziata per la Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia (presenza di minoranze linguistiche, caratteristiche geografiche, strutture economiche e sociali tipiche delle comunità alpine, contatti e interscambi con le aree confinanti appartenenti ad altri Stati ecc.); a favore della specialità della Sicilia milita, al di là delle particolarità economiche e culturali, una risalente tradizione storica che ha visto quell’isola costituire un regno indipendente per oltre sette secoli. Pur non avendo siffatti precedenti, non può negarsi che anche la storia sarda abbia conosciuto momenti di indipendenza e sia caratterizzata da un costante richiamo ai valori dell’autogoverno e dell’autonomia. L’Isola, infatti, espresse linee di civiltà unitarie e originali già in epoca antica e maturò una singolare esperienza di indipendenza politica e istituzionale per circa quattro secoli attorno all’anno 1000, con la costituzione di quattro Giudicati producendo ordinamenti giuridici, la famosa Carta de Logu innanzitutto, basati sul recepimento di consuetudini locali, di esito progressivo nella comparazione “internazionale” dell’epoca, che restarono vigenti sino all’inizio dell’800. E ad una repubblica democratica e indipendente, sia pure sotto il protettorato francese, aspiravano i rivoluzionari che alla fine del ‘700 guidarono la rivolta antipiemontese e antifeudale. Anche in considerazione di questi precedenti è patrimonio acquisito del popolo sardo la volontà di gestire in termini di forte grado di autonomia la condizione dell’Isola”.

La Commissione parlamentare per le questioni regionali nella seduta del 10 dicembre 1986, a conclusione dell’indagine conoscitiva promossa su “I rapporti tra Stato, regioni a Statuto speciale e province autonome “, approvava un primo documento in cui esprimeva il proprio parere in ordine ai principali profili problematici delle regioni differenziate, quali il significato della specialità, la questione etnica e la tutela delle minoranze linguistiche, il rapporto col Governo e con il Parlamento, il controllo governativo sulle leggi regionali, le norme di attuazione, la revisione degli statuti, la questione finanziaria, i rapporti con le autonomie locali e quelli internazionali.

Con riferimento al significato da attribuire al termine specialità, essa veniva riconosciuta dalla Commissione “nella peculiarità di ciascuna delle cinque regioni e delle due Province autonome e non è, pertanto, riconducibile ad un identico modello, se non concettualmente, all’esclusivo fine di contrapporre il regime giuridico loro proprio a quello delle regioni a Statuto ordinario. I rispettivi statuti, adottati con legge costituzionale, ne rappresentano piuttosto il formale e solenne riconoscimento, giacché il fondamento della specialità va ricercato nelle caratteristiche storiche, politiche, etniche, economiche, sociali e culturali di ciascuna di esse”.

Il risultato raggiunto dalla Commissione parlamentare era la diretta conseguenza di una riflessione approfondita sugli elementi caratterizzanti le comunità regionali interessate in ordine alla problematica connessa alla specialità, che aveva sovente ostacolato il raggiungimento delle legittime aspettative di tali comunità alimentando un clima di disagio politico diffuso.

In particolare, la Commissione sosteneva che la condizione economica e sociale che caratterizzava la Sardegna non poteva essere ignorata o minimizzata. Parimenti radicata nelle popolazioni interessate era la consapevolezza della necessità di un confronto e di un dialogo aperto, non solo verso lo Stato, inteso come la restante parte della comunità nazionale, ma anche nei confronti degli altri Paesi, in particolare con gli Stati membri dell’Unione europea e con quelli che si affacciano sul bacino del Mediterraneo.

La Commissione parlamentare del 1986 maturava, così, la convinzione che il completamento e il rilancio della specialità dovesse trovare affermazione attraverso un rinnovato disegno dell’ordinamento regionale complessivamente considerato.

Con legge regionale 27 luglio 1987, n. 32, il Consiglio regionale sardo istituiva una nuova Commissione consiliare speciale denominata “Commissione speciale di indagine per la riforma istituzionale della Regione” con il compito di raccogliere tutti gli elementi conoscitivi utili ed elaborare studi e proposte per il rilascio e il potenziamento dell’autonomia regionale.

Seguivano diverse proposte di modifica dello Statuto sardo da parte delle maggiori forze politiche dell’epoca, dalla proposta di legge del P.S.d’Az., di chiara impronta federalista e indipendentista, a quella del PCI, di orientamento più moderato, sviluppata in quindici punti e, infine, la proposta di legge nazionale di modifica dell’articolo 116 della Costituzione con cui si perseguiva lo scopo di ripristinare il ruolo delle regioni, in specie quelle a Statuto speciale, riassumendo il ruolo indicato nella Carta Costituzionale e “ritornando ad essere un centro di riferimento essenziale dell’assetto generale dello Stato repubblicano “.

Con il documento per la Commissione speciale per la revisione dello Statuto del marzo 1989, il PSL, facendosi precursore di esigenze ancor oggi attuali, auspicava la creazione di un vero Stato regionale attraverso una “Grande riforma Costituzionale”. Nel documento si affermava, infatti, che “Una riforma della nostra autonomia speciale non sarebbe possibile in un sistema statuale che restasse, come l’attuale, sostanzialmente centralizzato. Se restassimo, paradossalmente, l’unica regione con poteri autonomistici, costituiremmo un’anomalia che ci porterebbe nel vortice del sottosviluppo. La creazione di uno Stato regionale potrà conquistarsi solo con una Grande riforma Costituzionale. […] Il nuovo regionalismo deve accentuare quel sistema collaborativo tra Stato e regioni del quale le diverse anticipazioni si trovano proprio nello Statuto sardo. Bisogna aggiungere una diversa attribuzione delle competenze, basate non più sul criterio delle materie, ma degli interessi che debbono essere perseguiti e attuati. I poteri necessari per il governo della società italiana vanno assegnati al livello regionale ogni volta che in tale livello essi possono essere proficuamente svolti, garantendo nel contempo la possibilità di interferenza dello Stato e degli organismi sopranazionali, ogni volta che debbono essere perseguiti interessi realmente nazionali o sopranazionali. […] È, quindi, certo indispensabile una rilevante revisione statutaria che si attui, però, nell’ambito di una più ampia revisione costituzionale, ma è altrettanto indispensabile che nei tempi, certo non brevi che a tal fine saranno necessari, non si rinunci a quel rilancio dell’autonomia e della specialità che si otterrebbero con la piena attuazione dello Statuto vigente e con la rifondazione dall’interno dell’istituto regionalistico.

Sul finire degli anni ’80 si assisteva alla conclusione del dibattito politico vertente sull’autonomia dell’istituto regionale, di cui si sono individuate le fasi di maggiore rilievo. Le successive fasi di sviluppo del dibattito riguardavano, piuttosto, il problema della riforma della II parte della Costituzione e soltanto indirettamente l’eventuale rilancio dell’istituto regionale.

Durante la IX legislatura veniva istituita all’uopo la Commissione bicamerale De Mita-Jotti, il cui fallimento rendeva evidente l’impossibilità di portare a termine la riforma costituzionale e portava all’abbandono di ogni tentativo di rivitalizzare l’autonomia regionale.

Solo con la legge costituzionale n. 2 del 1993 (Modifiche ed integrazioni degli Statuti speciali per la Valle d’Aosta, per la Sardegna, per il Friuli-Venezia Giulia e per il Trentino-Alto Adige) si faceva un primo passo in avanti definendo il quadro delle competenze delle regioni ad autonomia speciale (eccezione fatta per la Sicilia) in materia di enti locali e privilegiando il criterio di maggiore ampiezza e di sostanziale uniformità laddove era in precedenza vigente una disciplina piuttosto riduttiva ed eterogenea. Da tale legge, “la competenza delle regioni a Statuto speciale in materia di ordinamento di enti locali acquista il carattere di esclusività e viene ad essere definita con formula identica in tutti gli Statuti speciali”, con ciò rimuovendo, secondo una delle finalità dell’intervento del legislatore costituzionale, “l’originaria diversità di regime giuridico delle regioni ad autonomia speciale in materia di enti locali ” (C. Cost., 7 dicembre 1994, n. 415). L’affermazione riguardava tutte le regioni ad autonomia speciale e che si comprendeva considerando che la Regione siciliana già era dotata di una “competenza esclusiva” nella stessa materia, a norma dell’articolo 15, terzo comma, dello Statuto, pur con le particolarità derivanti dalla disciplina delle province siciliane, configurate come liberi consorzi comunali.

La XII legislatura registrava una ripresa della discussione sulle possibili riforme costituzionali e sulle possibili leggi elettorali dei Consigli regionali; ma la caduta del Governo segnava l’arresto di ogni discussione sulla sorte delle regioni. Solo nella seconda parte della XII legislatura il Parlamento riusciva ad approvare la cosiddetta “legge Tatarella” che avvicinava, senza modificarla, la Costituzione al sistema politico di regioni, province e comuni.

Sul versante regionale, la legislatura degli anni dal 1995 al 2000 segnava una forte ripresa d’interesse per l’istituto regionale. Lo svilupparsi di tendenze politiche sempre più orientate verso un federalismo accentuato, fino a rivendicare il diritto alla secessione di parti del Paese, portava alla riconsiderazione, anche sul piano nazionale, del dibattito sul regionalismo.

Nella XIII legislatura il Parlamento provvedeva alla istituzione della Commissione bicamerale D’Alema e avviava le riforme legate alle cosiddette leggi Bassanini, che incidevano profondamente sui temi del regionalismo (F. Pizzetti, Dal primo regionalismo alle recenti riforme, in La potestà statutaria regionale nella riforma della Costituzione, ISRCNR, 21, p. 226-227).

In questo contesto si inserisce la legge costituzionale n. 1 del 1999 con cui veniva risolto il problema della definitiva possibilità di rinnovamento delle classi politiche regionali e della definitiva assimilazione del sistema regionale a quello comunale e provinciale attraverso l’elezione diretta del Presidente della Regione e l’ampliamento dell’autonomia statutaria.

Da qui la ripresa, sul finire della XIII legislatura, del dibattito sulla forma di Stato e la nascita di nuove istanze regionaliste tendenti al riconoscimento di nuove e più ampie sfere di autonomia.

Con la legge costituzionale n. 2 del 2001 il Parlamento estendeva anche alle regioni a Statuto speciale la possibilità di scegliere la propria forma di governo e la legge elettorale mediante l’adozione di una propria legge statutaria.

Si sviluppa in questo contesto il dibattito che ha condotto all’approvazione dell’intervento legislativo sul Titolo V della seconda parte della Costituzione, avvenuto con legge costituzionale n. 3 del 2001.

Con l’intervento legislativo sul titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3 del 2001) il Parlamento ha approvato una riforma organica del nostro sistema istituzionale, mutando profondamente l’assetto dei rapporti tra Stato, regioni ed enti locali, realizzando un forte decentramento politico.

La riforma, più che delineare uno “Stato federale”, costituito da Stato centrale e singoli Stati membri (le regioni) a capo dell’ordinamento degli enti territoriali minori, ha disegnato una “Repubblica delle autonomie” strutturata su diversi livelli territoriali di governo: comuni, città metropolitane, province, regioni e Stato.

L’ordinamento regionale risulta dotato di:
1. autonomia politica, ai sensi dell’articolo 114 della Costituzione, consistente nella possibilità delle regioni di darsi “propri Statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”;
2. autonomia legislativa e amministrativa, ai sensi degli articoli 117 e 118 della Costituzione, nelle materie espressamente indicate dalla Costituzione;
3. autonomia finanziaria, ai sensi dell’articolo 119 della Costituzione, che consente l’esercizio delle competenze regionali attraverso l’imposizione di tributi regionali e la partecipazione ai proventi di tributi statali. Con riguardo all’autonomia politica, ciascuna Regione gode di un proprio Statuto, che si differenzia a seconda della funzione che è chiamato a svolgere; mentre le regioni a Statuto ordinario sono sottoposte ad una disciplina comune, contenuta nel titolo V della Costituzione e, in particolare, nell’articolo 117 della Costituzione che ne disciplina la potestà legislativa, le cinque regioni differenziate e le due Province autonome di Trento e Bolzano hanno un proprio Statuto che disciplina i poteri regionali, oltre che l’organizzazione interna; per le regioni differenziate lo Statuto costituisce la fonte stessa dell’autonomia e ne definisce i limiti e i modi di esercizio, mirando a dettare una disciplina derogatoria rispetto alla Costituzione, gli Statuti delle regioni speciali sono adottati con legge costituzionale, dunque, con fonte statale; secondo quanto disposto dall’articolo 116 della Costituzione esse “dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia secondo i rispettivi Statuti adottati con legge costituzionale”.

Diversa è la funzione degli Statuti delle regioni ordinarie, in cui le “forme e condizioni di autonomia” sono delineate dalla Costituzione. A seguito della riforma costituzionale avvenuta con la legge costituzionale n. 1 del 1999, tuttavia, gli Statuti di queste regioni, che in precedenza avevano uno spazio normativo assai ridotto, hanno acquisito una funzione che in precedenza era affidata alla Costituzione: la definizione della “forma di governo” della Regione.

Con la legge costituzionale n. 2 del 2001 è stata concessa anche alle regioni speciali l’autonomia nella scelta della forma di governo e del sistema elettorale. Con legge costituzionale è stato modificato lo Statuto di tutte le regioni speciali, prevedendo che la Regione, o Provincia autonoma, possa dotarsi di una propria forma di governo e di un autonomo sistema elettorale, mediante legge statutaria. Quest’ultima ha natura di legge regionale “rinforzata” per procedimento, dovendo essere approvata a maggioranza assoluta e potendo essere sottoposta a referendum approvativo su richiesta di una frazione del corpo elettorale o dell’assemblea regionale.

Riguardo alla procedura di adozione degli Statuti, quello delle regioni speciali, approvato con legge costituzionale, dopo la riforma, ha acquisito due peculiarità: da un lato, parte delle disposizioni in esso contenute, sono derogabili mediante legge statutaria, pertanto, parte dello Statuto subisce un depotenziamento di alcune sue parti (quelle sulla forma di governo e sul sistema elettorale) attraverso un processo di “decostituzionalizzazione” da livello costituzionale a livello di legislazione ordinaria; dall’altro lato, il procedimento di revisione degli Statuti risulta semplificato dal fatto che la legge costituzionale n. 2 del 2001 ha previsto che le future modifiche degli Statuti speciali non siano sottoposte a referendum costituzionale ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione.

Anche lo Statuto delle regioni ordinarie ha subito una radicale riforma nella procedura di formazione. Mentre prima della riforma del 1999, la procedura di adozione avveniva in seno al Parlamento, il nuovo articolo 123 della Costituzione dispone che lo Statuto è approvato e modificato “dal Consiglio regionale con legge approvata a maggioranza assoluta dei suoi componenti con due deliberazioni successive adottate ad intervallo non minore di due mesi”. Esso può essere impugnato dal Governo dinanzi alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla sua pubblicazione ed, entro tre mesi dalla stessa pubblicazione, può essere sottoposto a referendum approvativo o sospensivo, qualora lo richieda un cinquantesimo degli elettori o un quinto dei membri del Consiglio regionale. Ai sensi dell’articolo 123 della Costituzione “lo Statuto sottoposto a referendum non è promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi”. La Corte costituzionale pronunciatasi sul punto ha affermato che “La parola pubblicazione, utilizzata nel terzo comma, indica un evento che è anteriore alla promulgazione dello statuto (e quindi anche alla pubblicazione cosiddetta necessaria che ne determina l’entrata in vigore) e che funge da momento iniziale per il decorso del termine per richiedere referendum. È a questo punto assai arduo immaginare, in assenza di un’esplicita indicazione in tal senso da parte del legislatore costituzionale, che quella stessa parola “pubblicazione” che compare nel comma precedente e che ha, anch’essa, la funzione di scandire l’iniziale decorso di un termine (quello entro il quale il Governo della Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli statuti regionali), abbia un significato totalmente disomogeneo e stia ad indicare non una pubblicazione a fini notiziali, ma la pubblicazione successiva alla promulgazione, la cui funzione, di per sé, non è quella di provocare l’apertura di termini, ma l’entrata in vigore degli atti normativi, concorrendo con le altre autonomie a costituire la Repubblica stessa; ossia la sovranità non appartiene solo alla Stato ma a tutti gli Enti che concorrono a costituire la Repubblica.

Significativa è, inoltre, l’attribuzione operata dall’articolo 117 della Costituzione della potestà legislativa in pari misura allo Stato ed alle regioni sottoponendola in entrambi i casi ai medesimi limiti diversamente dal sistema previgente in cui i limiti erano previsti solo per la legislazione regionale.

Vi è, inoltre il ribaltamento delle competenze essendo stata riconosciuta alle regioni la competenza legislativa generale residuale essendo stata attribuita alla Stato la competenza legislativa solo nelle materie specificatamente indicate nella Costituzione, al contrario di quanto era previsto in precedenza.

L’articolo 116 della Costituzione, quindi, riafferma il principio del riconoscimento costituzionale delle regioni a Statuto speciale, le quali, devono disporre “di forme e condizioni particolari di autonomia” senza essere soggette, in sede di redazione dei relativi Statuti, come le regioni a Statuto ordinario ai sensi dell’articolo 126, comma 1, della Costituzione, al principio dell’armonia con la Costituzione”; ossia le regioni a Statuto speciale sono enti differenti garantiti dalla Costituzione.

La necessità del nuovo Statuto-Carta costituzionale del Popolo sardo nasce, quindi, anche dall’esigenza di ridefinire le nuove ragioni della specialità, con l’attribuzione dei corrispondenti poteri e con la realizzazione del più ampio apporto e la più ampia partecipazione del Popolo sardo, indicandosi comunque sin d’ora alcune di tali ragioni:
– sussistenza di radicati motivi identitari, che devono essere tutelati e sviluppati, che rendono irrinunciabile il rispetto dell’identità del Popolo sardo. Questo, infatti, ha una sua specifica identità storica, culturale, linguistica e geografica, peculiare e distinta rispetto alla comune identità nazionale:
– necessità dell’adeguamento al mutato quadro internazionale e comunitario, il quale ultimo è oggi rappresentativo anche delle autonomie quali le regioni;
– riconoscimento pieno dell’insularità, in linea con quanto disposto dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997, Dichiarazione relativa alla regioni insulari e dell’articolo 158 del trattato CE, e attribuzione alla Regione dei relativi poteri e specifiche risorse;
– rilancio dell’obiettivo della rinascita della Regione, già prevista dall’articolo 13 della legge costituzionale 26 febbraio 1948 , n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), mai attuata effettivamente ma tuttora attuale, oltre perché rispondente ad un obbligo storico dello Stato tuttora valido, anche alla luce del disposto dell’articolo 119, comma 5, della Costituzione;
– superamento di ogni limite che possa eventualmente desumersi dall’articolo 15 della legge costituzionale n. 3 del 1948 circa il potere di scelta della cosiddetta forma di governo, con affermazione della possibilità di autonomia e separata investitura elettorale dell’organo legislativo e di quello esecutivo;
– attuazione piena del principio di sussidiarietà nel rapporto Stato-Regione e sua attuazione piena anche nel rapporto Regione-autonomie locali.

In questo mutato quadro costituzionale il nuovo Statuto-Carta costituzionale del popolo sardo non può che essere frutto della partecipazione diretta del popolo sardo.


TESTO DEL PROPONENTE

Art. 1
Assemblea costituente regionale

1. Al titolo VII della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), e successive modifiche ed integrazioni dopo l’articolo 54 è aggiunto il seguente:
“Art. 54 bis
1. Entro un anno dall’entrata in vigore del presente articolo il Consiglio regionale istituisce, con legge regionale approvata con le forme e modalità di cui all’articolo 15 un’Assemblea costituente regionale allo scopo di redigere un nuovo Statuto-Carta costituzionale del Popolo sardo.
2. L’Assemblea costituente regionale è eletta a suffragio universale e diretto, con sistema proporzionale e con voto libero e segreto attribuito a liste di candidati concorrenti, secondo modalità disciplinate dalla legge regionale di cui al comma 1, che determina anche la composizione dell’Assemblea in un numero compreso fra i trenta e i sessanta componenti, stabilisce i casi di ineleggibilità e di incompatibilità e le norme fondamentali di organizzazione e di funzionamento dell’Assemblea e determina le forme e i modi con i quali è approvato il nuovo Statuto. Non sono comunque eleggibili alla carica di componente dell’Assemblea costituente gli assessori e i consiglieri regionali in carica. L’Assemblea costituente ultima i propri lavori con l’approvazione di una legge contenente il nuovo Statuto-Carta costituzionale del Popolo sardo entro un anno dal suo insediamento.
3. Il nuovo Statuto-Carta costituzionale del Popolo sardo è redatto in armonia con la Costituzione, non deve contrastare col principio di indivisibilità della Repubblica e con i principi di diritto internazionale e comunitario.
4. La legge di approvazione del nuovo Statuto-Carta costituzionale del Popolo sardo non è comunicata al Governo ai sensi del primo comma dell’articolo 33. Su di essa il Governo della Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla sua pubblicazione; la stessa legge può essere sottoposta a referendum.
5. La legge di approvazione di cui al comma 2 può essere sottoposta a referendum nei casi e con le modalità di cui all’articolo 15, commi 4 e 5.”.

Art. 2
Norma finanziaria

1. Le spese previste per l’attuazione della legge regionale di cui all’articolo 1, comma 1, sono valutate in euro 2.500.000 per l’anno 2014 e si provvede con la legge finanziaria ‘a termini dell’articolo 4, comma 1, lettera e), della legge regionale 2 agosto 2006, n. 11 (Norme in materia di programmazione, di bilancio e di contabilità della Regione autonoma della Sardegna. Abrogazione della legge regionale 7 luglio 1975, n. 27, della legge regionale 5 maggio 1983, n. 11 e della legge regionale 9 giugno 1999, n. 23).

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