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Sessantesimo anniversario dello Statuto Speciale della Sardegna


 


  


Le celebrazioni della Costituzione della Repubblica, promulgata dal Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre 1948 per entrare in vigore, con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica il 10 gennaio 1948 e quelle dello Statuto speciale per la Sardegna, approvato dall’Assemblea Costituente con la legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del successivo 9 marzo, sono sempre state strettamente connesse cronologicamente, ma, come si può osservare nella lettura dei discorsi e dei documenti ufficiali, non sono quasi mai state caratterizzate dai medesimi toni.


Alla Costituzione della Repubblica è sempre stata riconosciuta, insieme al carattere culturale, etico, politico fondativo del risorgimento d’una nazione, la validità di un programma permanentemente attuale, di lunga anche se travagliata e problematica attuazione, capace non solo di accompagnare le trasformazioni interne dell’Italia, ma anche di introdurre il Paese nel più ambizioso processo di costruzione dell’unità europea e in un ordinamento internazionale progressivamente più giusto, pacifico e sicuro.


Le celebrazioni del nostro Statuto speciale, quasi fin dalle origini, sono state caratterizzate oltre che dal riconoscimento della specialità e della sua importanza anche da esplicito rammarico e da non poche riserve, echeggiate già all’atto della sua approvazione -anche nel paragone con altri Statuti speciali, come quello siciliano- per un grado di autonomia inferiore alle aspettative storiche di un popolo la cui identità civile, culturale, linguistica e le cui peculiari vicende istituzionali risalgono ad epoche assai antiche, ma le cui vicissitudini politiche, economiche e sociali sono sempre state caratterizzate dall’assoggettamento a forme di dipendenza esterna, dalle quali sono derivate condizioni di sfruttamento, di ingiustizia, di arretratezza.


Vale la pena forse di spezzare questa ritualità. Non per negare evidenze storiche, ma per tentare di dare un giudizio equilibrato, che non separi la vicenda costituzionale da quella statutaria nel passato, nel presente e soprattutto nel futuro.


Ed in particolare al fine di contrastare il rischio che tendenze presenti nella temperie politica italiana almeno dell’ultimo quindicennio, volte a porre in discussione i fondamenti della Costituzione, possano mettere in causa, tra di essi, quell’elemento originario ma anche programmatico, contenuto nell’articolo 116 primo comma della Costituzione, ossia la specialità delle cinque regioni storiche e delle due province autonome.


Alla saggezza dei Costituenti va attribuita senza dubbio la consapevolezza che l’autonomia speciale riconosciuta a Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Sicilia, Sardegna e Friuli Venezia Giulia perseguiva una finalità contingente e nello stesso tempo dava vita a uno strumento destinato a dare frutti futuri.


Senza il riconoscimento della specialità sarebbe stato ben difficile mantenere nella compagine di un Paese sconfitto dalla guerra regioni di confine popolate da comunità non di lingua italiana; senza il riconoscimento della specialità sarebbe stato meno credibile prospettare un futuro di emancipazione a regioni periferiche e insulari cui il processo unitario post-risorgimentale non era stato in grado di assicurare né il riscatto dall’arretratezza economica e sociale né il superamento degli ostacoli oggettivamente derivanti dalla posizione geografica.


Le Regioni speciali sono state le apripista della realizzazione sui loro territori di fondamentali articoli programmatici della Costituzione. Dell’articolo 1 sulla democraticità della Repubblica. Dell’articolo 2, che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, tra le quali certamente rientra la comunità nativa. Dell’articolo 3, che stabilisce, insieme alla parità dei diritti dei cittadini, anche il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli economici e sociali al conseguimento dell’uguaglianza. Dell’articolo 5, che riconosce, come entità preesistenti allo stesso Stato, le autonomie locali e insieme impegna la Repubblica a promuoverne l’affermazione.


Per più di vent’anni sono restate sole a costruire un proprio modo di autogovernarsi, fronteggiando le resistenze di apparati centralistici inclini a conservare i retaggi degli ordinamenti pre-costituzionali. E la loro esperienza ha costituito una permanente pietra di paragone, problematica ma concreta, anche per il pieno dispiegarsi del regionalismo ordinario.


E’ vero che fin dalla nascita delle regioni ordinarie si è poi assistito ad una inversione della funzione propulsiva, avendo le nuove regioni progressivamente dimostrato una incisiva attitudine sia a provocare la trasformazione delle istituzioni centrali, sollecitando e ottenendo un crescente conferimento di competenze al sistema delle autonomie, sia a gestire queste competenze con maggiore efficienza e dispiegando una maggiore sintonia con le rispettive comunità.


Ed è vero anche che le regioni speciali si sono rivelate nel frattempo prigioniere sia dei rispettivi rigidi meccanismi di attuazione statutaria sia, ancor più, di moduli amministrativi mutuati in scala, sul rispettivo fronte interno, dal ministerialismo statale, perciò molto lente nel recepire e infine addirittura nel rincorrere le innovazioni. Né si può sottacere che esse non sono affatto rimaste esenti dai fenomeni di degrado politico e istituzionale cha ha colpito molecolarmente la vita pubblica del Paese, in questo non dimostrando una particolare specialità.


Un giudizio equilibrato tuttavia non può non riconoscere che le Regioni speciali, anche al di là del dettato formale dei rispettivi Statuti, hanno adempiuto ad una missione fondamentale. In ciascuna di esse l’istituzione democratica regionale si è radicata profondamente nell’identità delle rispettive comunità ed è andata assumendo una funzione unificante non solo sotto il profilo politico e amministrativo, ma anche sotto il profilo culturale e sociale, fino ad essere considerata, nella percezione quotidiana, un fattore imprescindibile del rapporto cittadino-istituzioni, sia pure in un contesto di fortissime istanze di cambiamenti
interni. Nella permanenza, anzi nel consolidamento di una consapevole, peculiare soggettività, alimentata da sessant’anni di esperienza dell’autogoverno, stanno le ragioni non sopite delle specialità storiche e la loro diversità rispetto alle altre realtà regionali italiane.


In questa diversità, oltre che nel permanere oggettivo di specificità etniche, linguistiche, geografiche, trova legittimazione la conferma dell’impianto duale del regionalismo anche nel nuovo articolo 116 della Costituzione.


Ancorché sette anni dopo la riforma del Titolo V della Costituzione si sia ancora lontani dalla formulazione di nuovi statuti speciali, l’articolo 116 continua a mantenere una linea di demarcazione tra le forme e le condizioni particolari di autonomia di cui possono “disporre” le regioni speciali mediante statuti approvati con legge costituzionale e quelle forme e condizioni particolari di autonomia che “possono essere attribuite” dallo Stato, entro ben precisati confini non superabili da una legge pur sempre di rango subcostituzionale, ad altre regioni ordinarie.


Certo, ciascuna regione speciale è diversa irriducibilmente dalle altre. I bilanci delle rispettive esperienze non possono che essere diversificati.


Le vicende di quella sarda sono state intense, travagliate, non prive di delusioni e oggi ancora cariche di incertezza.


L’autonomia sarda si è dovuta misurare fin dall’inizio con l’arretratezza delle condizioni economiche e sociali. Ed ha nutrito, proprio sul piano delle riforme economiche e sociali, grandi ambizioni.


La Rinascita è stata insieme una rivendicazione dei gruppi dirigenti e di popolo e un’esperienza di programmazione, una costante messa alla prova delle capacità interne e del rapporto con lo Stato, un tentativo di imprimere una direzione allo sviluppo ed un confronto spesso impari con dinamiche dell’economia italiana e mondiale sempre meno dominabili dalle istituzioni pubbliche regionali e nazionali.


La Sardegna ha visto finire il ciclo dell’industrializzazione esogena, ne ha dovuto affrontare e ne sta affrontando tuttora le conseguenze, soprattutto sul piano sociale; quel ciclo e la sua stessa fine sono stati accompagnati da una pervasiva dipendenza dai trasferimenti di risorse pubbliche, che ha improntato un sistema economico-sociale assistito, ma fragile e non competitivo. Tutto ciò ha condizionato la vita politica ed istituzionale, che ha a lungo stentato e ancora stenta a diventare uno dei fattori di efficienza e di progettualità necessari per promuovere l’integrazione dinamica dell’Isola nei nuovi scenari dell’economia globalizzata.


Qualitativamente e quantitativamente non si può fare alcun paragone tra le condizioni di partenza della Sardegna di sessant’anni fa e quelle di oggi. Tuttavia una delle missioni che l’autonomia speciale si era data, quella del superamento del divario con le realtà più avanzate del Paese quanto a capacità di crescita, a opportunità di occupazione, a diritti di accesso a servizi di qualità, per individui e per formazioni sociali, per lavoratori e per imprese, non è stata compiutamente assolta.


Ed è quella missione della specialità che occorre rilanciare, avendo la consapevolezza che la soggettività e l’identità non possono restare confinate nella nostalgia di un retaggio né nell’evocazione meramente ideale, pure importante, ma debbono essere messe in gioco come fattore competivo, così come l’essere popolo, accomunato da peculiari matrici culturali e linguistiche non basta per proiettarsi nel futuro se non si diventa anche un insieme di corpi sociali, economici e istituzionali capace di diventare sistema e, persino, specifico, virtuoso modello, attrattivo al suo interno e cooperativo verso l’esterno.


E’ in questo contesto di transizione che si colloca oggi il tema dell’attualità della specialità e quello della scrittura di un nuovo Statuto.


Per dire la verità, la nostra transizione si colloca nell’ambito di una transizione, anche istituzionale, nella quale versa l’intero Paese.


Siamo alla vigilia di nuove elezioni politiche. La quindicesima legislatura repubblicana si è conclusa evidenziando in forma acuta uno dei punti di crisi dell’impianto strumentale della Costituzione, quello contenuto nella seconda parte, in ordine alla stabilità e alla durevolezza dei governi. Un problema reso ancora più complicato da risolvere anche per la vigenza di un sistema elettorale che non si è rivelato capace di superare la frammentazione della rappresentanza e di assicurare la coesione delle coalizioni. E, per inciso, dobbiamo constatare, non senza apprensione, che si va a votare col medesimo sistema.


La fine anticipata della legislatura ha interrotto alcuni processi di riforma ai quali tutte le regioni guardavano con notevoli aspettative, l’uno legato al completamento dell’attuazione del nuovo Titolo V, l’altro al suo coerente sviluppo. Mi riferisco al disegno di legge-delega sul federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione e al disegno di legge costituzionale sull’istituzione del Senato Federale della Repubblica.


E’ auspicabile che la nuova legislatura nazionale riprenda e risolva tutti i temi legati all’adeguamento della seconda parte della Costituzione, la cui mancata soluzione ha anche reso e rende difficile pensare ai nuovi statuti delle regioni speciali.


Sul piano generale le regioni e tra loro quelle speciali non possono essere indifferenti rispetto alle esigenze di stabilità degli esecutivi nazionali, al cui rafforzamento, in un quadro di democrazia parlamentare, era volta anche la parte del disegno di legge in discussione nella Commissione affari costituzionali della Camera, che, oltre all’istituzione del Senato Federale, prevedeva appunto nuove modalità di elezione del Presidente del Consiglio, un nuovo regime della fiducia da parte della Camere e l’introduzione della sfiducia costruttiva.


Da un punto di vista specifico è sempre più evidente che il nuovo ordinamento regionale scaturito dalla riforma del 2001 richiede l’evoluzione del Parlamento nella direzione di una sola Camera politica e di una Camera rappresentativa del sistema delle autonomie, imperniato su quelle regionali. E’ una riforma di vitale importanza per ricondurre ad unità, attraverso la diretta rappresentanza delle istituzioni regionali e locali nei processi di produzione legislativa e di formazione di grandi decisioni economico-finanziarie nazionali, un sistema di rapporti che, in assenza di questa soluzione, rischia di diventare, anziché sanamente cooperativo, conflittuale e foriero di discriminazioni tra territori e tra cittadini.


Così come per concorrenti ragioni è indispensabile provvedere tempestivamente all’attuazione delle previsioni le previsioni contenute nell’articolo 119 della Costituzione, tanto di quelle relative all’autonomia nella definizione delle provviste finanziarie regionali e locali, anche mediante la leva tributaria, quanto di quelle relative alla finanza perequativa e di riequilibrio, al fine di garantire, pur in un regime diversificato e responsabilizzato, standard di trattamento nelle prestazioni pubbliche che impediscano la vanificazione dei principi costituzionali di solidarietà e di eguaglianza. Ed è auspicabile che fondamentalmente a queste finalità sia ispirata la disciplina dei poteri nazionali di coordinamento complessivo della finanza pubblica.


La mancata definizione di questi problemi istituzionali ha in qualche misura contribuito a frenare anche la spinta per l’elaborazione di nuovi statuti speciali. Non è casuale, forse, che nella appena trascorsa legislatura solo la Regione Friuli-Venezia Giulia abbia presentato un disegno di legge costituzionale in materia statutaria, caratterizzato da un prevalente adeguamento alle previsioni del nuovo Titolo V.


Ha pesato e pesa l’incertezza sul contesto politico e culturale nel quale potrebbero cadere eventuali nuove proposte statutarie e forse anche il timore del prevalere di orientamenti e di rapporti di forza poco favorevoli a riconoscere alle regioni speciali ulteriori condizioni di autonomia. Nel frattempo altre regioni ordinarie, come il Veneto e la Lombardia, hanno avviato iniziative per ottenere l’attribuzione di nuove competenze ai sensi del secondo comma dell’articolo 116.


Tuttavia non possiamo negare che il ritardo, per quanto riguarda la Sardegna, è prevalentemente nostro. Ed è un ritardo di soggettività, ossia di progettualità, che non può avere come alibi nemmeno il contesto esterno.


Lo spazio di manovra deve mirare da un lato alla dilatazione degli spazi già oggi esistenti dall’altro nella definizione di nuovi  poteri.


Infatti se è vero che la Corte costituzionale ha censurato, con la sentenza n. 365 del 2007, il ricorso al concetto di “sovranità”, contenuto nella legge regionale 23 maggio 2006, n. 7, istitutiva della Consulta per la redazione del nuovo Statuto –una sentenza che ha trovato dissensi anche in dottrina- è pur vero che essa non ha censurato, nel loro complesso, le indicazioni di principio e gli obiettivi contenuti nell’articolo 2, comma 2, nella stessa legge.


Se è vero che, con una recentissima sentenza, del 13 febbraio ultimo scorso, di cui attendiamo ancora di conoscere le motivazioni, la Corte ha cassato la previsione, contenuta nella nostra legge regionale n. 4 del 2006, dell’imposta sulle plusvalenze derivanti dalla compravendita di seconde case ad uso turistico e quella sulla titolarità di immobili destinati a uso residenziale turistico, facendoci in questo scontare anche i ritardi dello Stato nel disciplinare i limiti generali della potestà impositiva regionale di cui all’articolo 119 della Costituzione, è pur vero che su altre forme di imposizione tributaria contenute nella medesima legge la Corte ne ha confermato la coerenza con quanto previsto dal vigente Titolo III dello Statuto, mentre la contestuale decisione di rimettere alla Corte di Giustizia dell’Unione la verifica della compatibilità delle restanti disposizioni impositive con le normative europee di regolazione delle attività economiche non ha, in linea di principio, escluso la legittimità della normativa regionale in materia.


Ed infine, a confermare che, in ordine alle riforme, in Parlamento quel che conta sono la fondatezza delle ragioni, la credibilità, il senso di responsabilità delle proposte, ma anche la coesione e la determinazione con cui una Regione manifesta le sue rivendicazioni, nessun pregiudizio verso la specialità ha impedito lo scorso anno l’accoglimento, con la legge finanziaria dello Stato, di una riforma complessiva del Titolo III dello Statuto che garantisce alla Regione un regime delle entrate sicuramente più favorevole di quello in vigore dal 1983 e anche maggiori responsabilità.


Ecco perché in questa parte finale della legislatura regionale dovremmo sentirci incoraggiati a riprendere il confronto interno e ad instaurare un confronto col nuovo Parlamento su una proposta di riscrittura anche limitate dello statuto speciale, senza attribuire ad esso virtù palingenetiche che rischiano di trasformarlo in un libro dei sogni.


Daremmo in tal modo respiro anche allo sforzo che pure abbiamo fatto per innovare, anche a Statuto vigente, il nostro ordinamento interno.


Lo abbiamo fatto con importanti leggi regionali come la n. 1 del 2005, istitutiva del Consiglio delle Autonomie locali, come la n. 12 del 2005, che ha disegnato i nuovi ambiti ottimali per la gestione dei servizi locali. come la n. 9 del 2006, che ha operato un vasto e organico trasferimento di funzioni ai Comuni e alle Province, accompagnato dall’istituzione del fondo perequativo di cui alla legge regionale n. 4 del 2006 e del fondo unico previsto dalla legge regionale n. 2 del 2007, per il funzionamento delle autonomie locali: si è in tal modo avviata una decisa politica di reperimento e di riallocazione, a favore del sistema interno delle autonomie, delle risorse finanziarie derivanti da una fortissima opera di risanamento della finanza regionale.


L’innovazione del nostro ordinamento interno è stata anche oggetto della legge statutaria approvata il 7 marzo del 2007, ancorché la sua entrata in vigore resti in dubbio a seguito della vicenda del referendum confermativo e della questione di legittimità costituzionale della norma regionale del 2002 sul quorum nel referendum statutario sollevata dalla Corte d’appello di Cagliari.


Certo, anche quella vicenda, le modalità con le quali il confronto politico su di essa si è dispiegato, la stessa scarsa partecipazione al referendum consultivo (a prescindere dalle conseguenze formali che essa potrà avere in esito al giudizio della Corte), dovrebbero indurci a convenire che senza un’unità sostanziale delle forze politiche rappresentate in Consiglio e di quelle culturali, professionali e sociali ulteriormente coinvolte attraverso organismi come la Consulta, un’ impresa dal valore costituzionale, fondativa del progetto di un intero popolo, non può essere portata a compimento. E senza quell’unità di fondo nessun progetto potrà mobilitare la nostra comunità nel suo insieme.


E’ auspicabile quindi che tutte le forze politiche, al fine di verificare le condizioni di questa unità sui principi e sulle finalità, si risolvano a presentare le proprie proposte di Statuto e a utilizzare gli spazi molto ampi che possono essere offerti da una buona legge statutaria che sta solo nelle nostre mani.


Sappiamo che si tratta di un impegno di elaborazione istituzionale, culturale, politica, di grande momento. Sappiamo che è urgente, perché dello Statuto originario ben poco resta dopo le riforme della forma di governo operate con la legge costituzionale n. 2 del 2001 e dopo la successiva legge costituzionale n. 3 di riforma dell’intero Titolo V della Costituzione.


Sappiamo anche che esistono alcune grandi frontiere sulle quali misurarci nella scrittura di un nuovo Statuto. Vale la pena di evocare le principali.


Quella delle forme di concorso tra Stato e Regione ed insieme degli autonomi strumenti della Regione – anche mediante modalità specifiche di aiuti alle iniziative economiche o di modulazione della fiscalità regionale- per superare i ritardi nello sviluppo e le diseconomie derivanti dall’insularità.


Quella del riconoscimento di competenze e poteri finalizzati a una maggior tutela e ad una maggiore promozione del proprio patrimonio identitario, che è culturale, linguistico, ambientale, paesaggistico.


Quella della disponibilità, ai fini della promozione dello sviluppo, della misura maggiore possibile delle entrate derivanti dal reddito prodotto nel territorio dell’Isola, anche oltre le previsioni del recentemente riformato Titolo III.


Ma lo Statuto potrebbe anche essere l’occasione per rivedere con maggiore razionalità e risolvere, in forma esemplare per l’intero sistema autonomistico, le disarmonie ormai abbastanza evidenti nella ripartizione delle competenze stabilita dall’articolo 117 della Costituzione.


Vi sarebbe l’opportunità di superare la logica del ritaglio delle competenze all’interno della stessa materia e persino di mettere in discussione la configurazione della potestà legislativa concorrente: il ritaglio di competenze (si pensi al governo del territorio, all’ambiente e al paesaggio, materie sulle quali insistono confusamente competenze esclusive dello stato, competenze concorrenti tra Stato e Regioni e competenze residuali regionali ) e la permanenza, tramite la legislazione concorrente, di facoltà statali di incidere su ogni settore attribuito alla normazione regionale, da un lato mantengono in piedi potenzialità centralistiche, dall’altro impediscono una chiara e definitiva attribuzione di responsabilità all’uno o all’altro livello di governo.


Infine lo Statuto potrebbe – senza rimettere in discussione né, per un verso, la competenza legislativa esclusiva oggi attribuita alla Regione in materia di enti locali, né, per l’altro verso, la decostituzionalizzazione della materia attinente la forma di governo – stabilire una serie di principi e di norme capaci di indirizzare l’ordinamento interno della Regione verso il massimo del decentramento amministrativo e la conseguente valorizzazione del ruolo dei Comuni e delle loro aggregazioni, così come di improntare tutta l’attività pubblica, regionale e locale, verso il massimo della partecipazione democratica.


Sappiamo quindi su quali versanti generali orientarci: quello della soggettività della Sardegna come popolo e come istituzioni, quello del carattere pattizio e del bilateralismo tendenzialmente paritario nei rapporti con lo Stato, quello della creazione di istituzioni funzionali, anche in termini di efficienza, alla promozione dello sviluppo, quello della qualità democratica dell’ordinamento interno.


Sono i temi di un federalismo aggiornato all’evoluzione dell’Italia e dell’Europa. Sono i temi di un’identità non chiusa, ma proiettata sia verso una sana competitività sia verso una solidale e leale cooperazione. Sono i temi di una comunità che riprende a progettare un futuro.


La parte finale della legislatura può essere usata dalle forze politiche sarde per consegnare a chi governerà nella prossima un più avanzato e moderno riferimento costituzionale ed istituzionale.


Dobbiamo e possiamo assolvere a questo impegno.



 

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