Seduta CCXIV
Mercoledì 10 settembre 1997
(Pomeridiana)
Presidenza del Vicepresidente Milia
La seduta è aperta alle ore 16 e 41.
DEMONTIS, Segretario, dà lettura del processo verbale della seduta del giovedì 7 agosto 1997(210), che è approvato.
Annunzio di presentazione di proposta di legge nazionale
PRESIDENTE. Annunzio che è pervenuta alla Presidenza la seguente proposta di legge nazionale:
Dai consiglieri FOIS Paolo - AMADU - CHERCHI - CONCAS - GHIRRA - LA ROSA - MARTEDDU - MONTIS - MURGIA - TUNIS Gianfranco: "Modifiche ed integrazioni alle Leggi 24 dicembre 1976, n. 898 e 2 maggio 1990. n. 104, concernenti nuova regolamentazione delle servitù militari". (16)
(Pervenuta l'8 agosto 1997 ed assegnata alla seconda Commissione.)
Continuazione della discussione del disegno di legge "Tutela e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna" (87).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la continuazione della discussione generale sul disegno di legge numero 87. E' iscritto a parlare il consigliere Bonesu. Ne ha facoltà.
BONESU (P.S.d'Az.) Signor Presidente, onorevoli e pochi colleghi, mi trovo per caso e per necessità per la terza seduta consecutiva a prendere per primo la parola. Mi è toccato ieri sera, mi è toccato stamattina, mi tocca stasera; ci sto facendo un po' l'abitudine a parlare nell'aula deserta. E credo che se un po' ieri e stamattina me l'aspettavo perché si parlava di interpellanze, stasera credo che il tema meritasse un po' più di attenzione da parte dei colleghi. Credo che effettivamente il Consiglio dà di se stesso l'immagine che vuole e soprattutto dà in queste occasioni l'immagine dei soliti venti che lavorano e degli altri sessanta che pensano ad altro. Mi colpisce dolorosamente fra l'altro l'assenza, salvo la presenza dell'Assessore competente e di qualche altro che si imbosca tra i banchi del Consiglio, della Giunta regionale, in particolare del Presidente. Credo che effettivamente questo dibattito non è non importante. E' un argomento che non sarà importantissimo forse dal punto di vista politico, ma è sicuramente un dibattito che si inserirà nella storia della cultura della Sardegna, ma è soprattutto il primo dibattito dopo la riformazione della Giunta e credo che la Giunta se vuole superare quel distacco con il Consiglio che è stata, credo, una delle cause della crisi dovrebbe dimostrare ben altra attenzione, soprattutto quando si discutono argomenti di questo genere. Il Presidente sarà anche occupato, ma ricordiamoci che il Presidente dispone di dodici Assessori, se li utilizzasse al meglio forse sarebbe un po' meno occupato. Credo che l'argomento sia importante, come dicevo, dal punto di vista culturale, forse anche dal punto di vista della politica, non certamente dal punto di vista istituzionale, come stamattina ha sostenuto l'onorevole Masala. Mi spiego, mi sembra che tutto sommato sia una concezione superata quella di legare la lingua alla unità statuale, alla identità statuale, alla identità come nazione. Questo è stato parzialmente vero per l'Italia dell'800; cioè il fatto che le popolazioni dei vari Stati della penisola avessero una comune base culturale, non una lingua comunemente parlata, ma unacomune base culturale, come lingua dei colti l'italiano, veniva sollevato come argomento per sostenere l'unicità della nazione, la necessità di fare Stato unico. Chiaramente la possibilità di comunicare con un codice linguistico facilita certamente anche la formazione di aggregazioni politiche. Questo non è stato però vero neppure nell'800, neppure nel momento della formazione del Regno d'Italia, perché due popolazioni di lingua italiana, inconfutabilmente di lingua italiana, ne sono rimaste fuori, una molto piccola che è la Repubblica di San Marino, a cui lo stesso italianista e patriota, Giosuè Carducci, fece un discorso in lode della loro libertà perpetua anche al di fuori del Regno d'Italia, e l'altro fu il Canton Ticino in cui gli italiani del Canton Ticino, forse prevedendo quello che sarebbe successo, preferirono la solida amministrazione svizzera a quel Regno d'Italia su cui probabilmente non confidavano, giustamente, molto. E credo che siano gli avvenimenti di questi giorni a dimostrare questo mancato legame tra questioni di lingua e questioni di unità statuale, perché la Lega che sicuramente oggi nella sua espressione ufficiale predica la rottura di un sistema statuale italiano le dice queste cose in perfetto italiano, inneggiando anche a elementi di (.?) italianità, non per niente l'inno ufficiale della Lega è quel "va' pensiero" di Giuseppe Verdi che era un inno cantato nel Risorgimento italiano. Quindi la differenza tra la Lega e gli italiani che leghisti non sono non è certamente sul piano linguistico, sul piano della cultura italiana. Io parlando con i dirigenti leghisti li ho sempre sentiti parlare in italiano. Maroni parla in italiano, Pagliarini parla in italiano, l'onorevole Bossi parla in italiano come l'onorevole Boero. Chiaramente non c'è questa differenza culturale tra leghisti e altri. Anzi, dirò che una sola volta ho sentito esprimere le tesi leghiste non in italiano; e ho scoperto con mia grande meraviglia, ma relativa, che la segretaria del governo del nord è sarda. E questa qui appunto mi spiegava le tesi leghiste parlandomi in sardo, non certo in lombardo o in veneto. Mi diceva. "Nosus narausu a Prodi: limpia su logu". Cioè riteneva di esprimere i concetti politici della Lega in sardo, non in veneto o in lombardo. Ciò dimostra che i problemi culturali sono sicuramente diversi da quelli politici, che certi concetti i sardi in qualunque contesto politico-istituzionale siano li esprimono in sardo, gli italiani in italiano. Credo che ritornare ad un argomento che nell'800 ebbe una certa, se pur limitata fortuna, non sia molto produttivo per costruire. E la dimostrazione l'abbiamo in una situazione in cui qualcuno è fermo all'ottocento. Alcune settimane fa il Parlamento algerino ha fatto un largo dibattito sulla lingua da adoperare nel Parlamento algerino, e l'orientamento, anche per cavalcare la protesta islamica dell'unità dell'Islam, era di adottare come lingua ufficiale del Parlamento algerino l'arabo, diciamo così coranico, l'arabo ufficiale. Bene, quel dibattito si è svolto con gli interventi che erano in gran parte nell'arabo parlato comunemente in Algeria, diremmo noi in un dialetto, con le argomentazioni giuridiche e politiche più pesanti espresse in francese, con gli interventi di contestazioni espressi in berbero, che è una lingua che non ha niente a che fare con l'arabo. Pochissimi, anzi nessuno per l'intero discorso, qualcuno ha pronunciato frasi in arabo, diciamo così coranico, ma le ha pronunciate leggendo. Questa è la dimostrazione che se si parte da presupposti ideologici il risultato è che poi ci si scontra con la realtà, perché hanno deliberato che d'ora in poi i dibattiti nel Parlamento di Algeri si svolgano in arabo. Ebbene, hanno dimostrato ampiamente che l'arabo non sono in grado di parlarlo, che l'arabo non corrisponde alla situazione culturale dell'Algeria dove vengono di fatto valorizzate le parlate locali arabe o berbere e, come lingua di cultura, il francese. Io credo che quando i poteri politici intervengono nella materia linguistica debbano farlo in punta di piedi, e debbano farlo perché chiaramente i fenomeni linguistici sono fenomeni che non possono essere totalmente dominati dalla volontà politica, se così fosse, se la volontà politica avesse il potere di eliminare le lingue, chiaramente il sardo non sarebbe più parlato. E sicuramente quindi noi dobbiamo fare una legge che favorisca l'uso del sardo, ma non dobbiamo fare una legge che cerchi di imporre una nostra visione linguistica. Per cui i discorsi sull'unica lingua sarda sono discorsi estremamente pericolosi. Noi non siamo, in questo momento, in una situazione che, per editto del principe (Consiglio regionale) si possa affermare di volere una lingua sarda. In altre situazioni ne hanno preso atto e con totale soddisfazione. In Svizzera, nel cantone dei Grigioni (?) è usata come lingua ufficiale la lingua ladina. Bene, la lingua ladina non ha nessuna espressione unificante, perché nello stesso Grigioni si parlano almeno due varietà profondamente diverse; e in Italia si parla, nella val di Fassa, una varietà diversa da quella della valle di Moena, e la stessa Repubblica ne ha preso atto perché i libri di testo scolastici sono diversi nelle due valli. Esistono i ladini della provincia di Belluno, privi come i sardi di ogni tutela; esistono i ladini friulani e il popolo friulano, che chiaramente forse perché più numeroso, non ha avuto nessuna tutela. Ma sicuramente parlano linguaggi che sono fra loro diversi, anche se tutti vicini a un unico schema ideale che è la lingua ladina. Bene, il sardo è in questa situazione; esistono dialetti sardi e non esiste una lingua unificante. Sì, esistono anche lingue letterarie sarde. Oggi, per esempio, si è affermato, anche in Sardegna, uno scrivere per generi letterari, per cui la commedia in genere è campidanese, il canto poetico è logudorese e così via. Bene, io credo che il fatto che vari dialetti non si siano unificati in una koinè non significhi affatto una minore dignità. Io credo che la storia della letteratura mondiale ci illustri in questo senso. Forse possiamo dire che Omero, Platone, Eschilo, Archiloco, Saffo, Alceo non siano grandi letterati perché scrivevano nel loro dialetto, scrivevano magari in dialetto eolico che era pochissimo diffuso negli ambienti culturali. Bene io credo che dobbiamo prendere atto di una realtà linguistica, che è quella nostra. Anche Dante, quando scriveva la Divina Commedia, scriveva in dialetto fiorentino, c'era chi scriveva in dialetto siciliano, c'era chi scriveva in dialetto bolognese. Ebbene chiaramente poi è avvenuta l'unificazione; è avvenuta magari un'unificazione anche per merito o colpa di chi, come il Petrarca, scriveva in latino o in fiorentino e credeva di passare alla storia dell'umanità per gli scritti in latino. Certe volte i contemporanei non hanno neppure una piena coscienza dei loro fatti, soprattutto in materia linguistica. Io credo che dobbiamo fare una legge, e gli interventi previsti dalla legge si muovono in questo senso, per dare capacità al sardo di superare un momento sicuramente difficile, ma sicuramente anche un momento in cui sta risorgendo. Noi abbiamo avuto una situazione simile a quella del sardo in Catalogna. In Catalogna noi abbiamo avuto un brutale regime, quello franchista, che impediva l'uso del catalano. Ebbene, col ritorno della democrazia la generalità della Catalogna ha posto fra i suoi obiettivi l'uso del catalano. Oggi è riuscita talmente, abbiamo visto le olimpiadi, in cui lingua ufficiale, assieme al castigliano era il catalano, vi è una richiesta dei catalani di essere lingua ufficiale in Europa. Ebbene l'hanno ottenuto con una serie di interventi; qualcuno sorride sugli interventi in materia televisiva previsti da questa legge, ma in Catalogna sono arrivati a comprare "Dallas" in America, doppiarlo in catalano e trasmetterlo in catalano, perché hanno ritenuto che anche questi telefilm americani potessero essere uno strumento di comunicazione linguistica, uno strumento per portare i catalani a riscoprire le potenzialità della propria lingua. Io credo anche il sardo sia in questo momento. Io credo che, fra l'altro, sia forse il momento più fulgido della letteratura sarda. In sardo non si scrivono più soltanto poesie, si scrivono opere teatrali che escono anche dalla commedia scherzosa, si scrivono libri in materia scientifica, si scrivono romanzi; il sardo è arrivato nella radio e nella televisione, anche se in funzione minoritaria, e credo che vi sia un risveglio al di là delle statistiche Istat o Doxa. E su questo però occorre riflettere su una cosa: che noi abbiamo assistito, per fatto di governo e per mentalità che è stata indotta ai sardi, a un tentativo di fare abbandonare il sardo. Il sardo è stato represso perché il regime fascista, ricordiamolo, dopo un primo tentativo di apertura alle culture locali, tutti abbiamo presente quell'almanacco sardo che fu pubblicato negli anni venti, creò un divieto assoluto fino alle gare estemporanee in piazza, e non ha avuto poi nel successivo regime, un incoraggiamento, anzi si è perpetuata la convinzione che il sardo fosse la lingua degli ignoranti, degli umili, quindi il tentativo di conquista di gradi sociali è andato incitando i bambini e i ragazzi a non usare il sardo. I genitori parlavano il sardo ma non lo parlavano con i figli. Nella scuola l'uso del sardo era represso. Chiaramente risentiamo di una situazione di questo genere. Per fortuna l'ultima generazione, i nostri ragazzi che conoscono poco il sardo, non hanno certamente remore di questo genere a usarlo. Io, per esperienza personale, non parlo il sardo con mia madre ma lo parlo con mio figlio, il che vuol dire che un salto nella considerazione che ha il sardo agli occhi dell'ultima generazione c'è. Ma chiaramente questa generazione, essendoci stata la rottura di una generazione, una generazione perduta, chiaramente ha difficoltà di riannodare i fili di un discorso che si è trasmesso per tanto tempo. E qua vi è la funzione della scuola, che è stata una funzione pesante. I francesi, in Senegal, insegnavano ai senegalesi che i loro antenati erano alti e biondi, copiando il loro schema culturale e imponendolo ad altre popolazioni. Credo che in Sardegna sia avvenuta la stessa questione, perché noi abbiamo a scuola appreso la letteratura italiana, la storia dell'arte italiana, la storia italiana; non abbiamo appreso quella cultura che è la nostra; ci hanno, in materia di storia, effettuato le maggiori credo privazioni del nostro essere identità, del nostro essere cultura. Sono andati a insegnarci il guidrigildo barbarico e non ci hanno insegnato che in Sardegna questa barbarie non era mai arrivata, che in Sardegna è sempre valso il principio che nessuno se la poteva scampare pagando somme di denaro, che la Sardegna è stata, in materia giuridica, la continuazione della civiltà classica. Ci hanno infuso un senso di inferiorità e ci hanno nascosto tutti gli elementi che invece dimostravano una superiorità culturale dei sardi nei confronti delle popolazioni del continente italiano. Ci hanno nascosto che la lingua sarda era scritta secoli prima che si scrivesse in lingua italiana, e sono tutte cose che chiaramente poi ti andavano a spiegare all'Università che la Carta de Logu era superiore a qualunque altra codificazione medievale nell'osservare i principi di giustizia elaborati dai giuristi romani, ti insegnavano che il sardo è una lingua neolatina con pari dignità formale rispetto alle lingue neolatine. Ma te lo insegnavano all'Università, dopo aver distrutto, nelle scuole inferiori, ogni concetto della tua identità culturale. Chiaramente certi patrimoni sono restati patrimoni di chi ha frequentato l'Università, non certamente di chi ha frequentato solo le elementari e le medie.
Per cui la cultura sarda ha vissuto inconsciamente a livello popolare e consciamente ai livelli più alti della cultura, e di ciò ce ne è stato sempre reso atto, perché la lingua sarda è stata studiata nelle università tedesche, olandesi o americane, perché il massimo archeologo sardo è stato chiamato all'Accademia dei licei, però in Sardegna questa cultura, fra le persone di mezza cultura non è stata affatto valorizzata, e si è creata la convinzione che essere sardo voleva dire essere culturalmente inferiore e fra l'altro è stato avallato anche un principio della lingua italiana come lingua di comunicazione. Questo è un grave errore: oggi la lingua di comunicazione non è certo l'italiano, è l'inglese. Il che non vuol dire che l'italiano non abbia anche in un quadro composito multilingue una sua funzione. Chiaramente non credo che in questo Consiglio nessuno voglia dire che la lingua di Dante, la lingua che ha avuto un uso poliforme, una lingua assolutamente elastica e adattabile a tante circostanze, come l'italiano, non sia una lingua da insegnare ai nostri ragazzi, non sia una lingua da valorizzare. Io credo che quanto in Spagna, per esempio, giuridicamente si rifanno alle decisioni della Cassazione italiana, si rifanno anche perché c'è quella singolare opera linguistica che è il Codice civile del 1940 - quindi io non faccio certamente discriminazioni di carattere politico -, opera scritta con proprietà di linguaggio, con esattezza, col rispetto dei principi di giustizia quasi sempre, un autentico capolavoro. Io credo che la lingua italiana abbia una sua funzione culturale, essendo una lingua che sicuramente ha determinati pregi culturali, che non hanno né il sardo, né l'inglese. Io credo che dobbiamo abbandonare il principio della lingua unica e cercare di utilizzare le lingue per quello che sono: veicoli di comunicazione, veicoli di pensiero, a livelli diversi: il sardo per l'identità, l'italiano per la cultura, l'inglese per la comunicazione. Credo che tutte le lingue, e anche altre, chiaramente, abbiano una loro funzione e una loro dignità, una loro necessità nel mondo moderno. Tra l'altro io credo che anche l'identità interna delle lingue vada messa in discussione. Non so chi di voi abbia letto scritti giuridici dei tribunali svizzeri: sono scritti in italiano, ma sicuramente è un italiano profondamente diverso da quello che si usa nei tribunali italiani. Il che dimostra che la cultura non è strettamente legata alla lingua. Fra l'altro queste differenze culturali saltano fuori a chiunque abbia esaminato le letterature. Qualcuno ha citato stamattina Grazia Deledda come esempio di cultura italiana in Sardegna, ma io direi che Grazia Deledda è più l'espressione di cultura sarda espressa in lingua, chiamiamola così, "italiana", perché credo che Grazia Deledda esprimesse valori universali e che sia molto più apprezzata in Svezia, dove l'hanno potuta conoscere in traduzione, che in Italia, dove la forma letteraria probabilmente non è che altissima, basata su parametri italiani. Ma quando la giuria del Nobel decise di dare il Nobel a Grazia Deledda e non a Gabriele D'Annunzio, scrittore, preso in senso italiano, sicuramente superiore, lo fece perché la cultura non è solo lingua, è soprattutto espressione di valori, e noi credo, in sardo, in italiano, in inglese o in tedesco, dobbiamo esprimere valori. Il fatto che alcune televisioni sarde stiano facendo telegiornali in sardo sta ponendo alcuni di noi in una difficile situazione, perché stiamo constatando la difficoltà di fare interveniste in sardo in materia politica. Lo stiamo constatando perché noi parliamo in materia politica una lingua che definiamo italiano. Ebbene, io credo che questo linguaggio, che qualcuno denomina politichese, sia un linguaggio sicuramente neppure italiano, se concepiamo la lingua italiana come qualcosa di unitario. Ma sicuramente è un linguaggio estremamente astratto: quando ci troviamo un microfono davanti, un intervistatore che pretende che rispondiamo in sardo, noi abbiamo già una difficoltà iniziale perché in genere non usiamo il sardo, tanto meno lo usiamo in politica. Ma, siccome il nostro narcisismo di politici ci impone di esibirci anche su terreni difficili, andiamo a rispondere e troviamo la difficoltà di esprimere le fumosità del linguaggio politico in una lingua,, come quella sarda, che è strettamente attaccata alla realtà. Alla gente dobbiamo dire fatti e non riusciamo a dire in sardo, invece, il fumo che diffondiamo, il portare avanti i discorsi, le convergenze, e così via. Chiaramente il sardo a tutto questo si presta molto poco, e credo che forse l'uso maggiore del sardo nella politica probabilmente sarebbe anche una rivoluzione culturale e ci avvicinerebbe alla realtà.
Questa legge, quindi, è una legge che afferma un qualcosa che i precedenti consigli regionali non ci hanno trasmesso, che non ci è stato trasmesso dallo Statuto. Lo Statuto ha affermato l'autonomia speciale della Sardegna, ma senza dirne i motivi, senza affermare che uno dei motivi era, al di là della lingua, anche la cultura. Per cui quando la pubblica istruzione e i beni culturali sono finiti fra le competenze integrative ne abbiamo pagato le conseguenze. E' stata forse una sottovalutazione dei problemi, il pensare che in democrazia la lingua della maggioranza, perché nel 1947 sicuramente la maggioranza della popolazione parlava il sardo, anzi lo parlavano tutti, anzi le classi sociali più elevate, i nobili, per distinguersi dai borghesi tendevano a parlare il sardo. Quindi in certi casi era proprio un elemento di distinzione al contrario. Ebbene, non venne affermato nello Statuto; noi abbiamo trascinato questa situazione e ci troviamo sempre col problema di una cultura sarda che non è antitetica a quella italiana, ma sicuramente diversa ed espressione della nostra identità. Questa legge cerca di dare strumenti alla Regione, con mezzi finanziari limitatissimi attinti da capitoli già esistenti, cerca di darli con una serie di azioni, di interventi, di organismi, rinviando anche ad altre leggi. Sicuramente il pericolo che questa legge corre è di insabbiarsi nella burocrazia. In questo senso è una legge profondamente italiana, profondamente radicata in questa falsa autonomia che gestiamo, e non è certamente una legge sarda. Credo che dobbiamo porre attenzione, credo che certi emendamenti si muovano in questo senso. Ricordo per esempio gli emendamenti all'articolo 15 proposti dal collega Fois, per cercare di semplificare ed eliminare ostacoli a fare una legge che sia una legge di fare e non una legge di principi astratti che non si possano tradurre nella realtà. Io credo che questo possiamo fare, sicuramente è una legge su cui torneremo successivamente per aggiustamenti, per rivedere certe cose, ma è una legge che dobbiamo pensare come una legge operativa, come una legge che dia strumenti e non per creare altra burocrazia e neanche per creare privilegi a chi magari oggi sbandierando la bandiera del sardo, come ieri sbandierava la bandiera di qualche altra concezione elitaria della cultura italiana, pensa di ricavare il suo posto al sole. Io condivido le critiche in questo senso, il professionismo non accompagnato da adeguato valore e capacità non deve essere premiato da questa legge.
PRESIDENTE. Ha domandato di parlare il consigliere Lorenzoni. Ne ha facoltà.
LORENZONI (Popolari). Signor Presidente, colleghe e colleghi, può sembrare un paradosso, ma ho la sensazione che la Corte Costituzionale dichiarando l'incostituzionalità di una parte della legge di analogo argomento che fu approvata dal Consiglio regionale nella passata legislatura e, come ben ricordiamo, il Governo respinse, inconsciamente ha dato a noi consiglieri dell'undicesima legislatura l'opportunità di confrontarci su un tema appassionante, di esprimere le nostre opinioni su un argomento che è persino origine della nostra presenza in questa Aula. Volenti e nolenti infatti un tipo di cultura ci ha condizionato, ci ha modellato, ci ha dato delle connotazioni precise, ha in altre parole contribuito alla formazione della nostra identità culturale che oggi come singoli e come collettività esprimiamo nel nostro lavoro, oggi il nostro compito non è limitato al solo asettico esame della legge, ciascuno di noi è chiamato a interrogarsi sul senso e sul valore della nostra identità culturale, dobbiamo esprimerci su un concetto, la nostra cultura, la sua promozione, la sua valorizzazione può esserci di aiuto nell'attivare nuovi processi di sviluppo? Può in qualsiasi settore condizionare positivamente le scelte? Può far riscoprire valori che armonizzano il processo purtroppo inevitabile di globalizzazione della nostra società? Se le risposte a queste domande sono affermative, la conseguenza logica e pratica è che si deve necessariamente difendere, valorizzare e promuovere attraverso norme l'origine e tutto quello che nel tempo ha fatto crescere questo processo. Il mio parere è che la legge che stiamo esaminando si propone nel migliore dei modi a difesa di quel processo, è evidente il fondamento di quella cultura che ci rende fieri di essere isolani, dà una spiegazione ai nostri atteggiamenti non compresi da culture dove i valori sono soliti da parole come business, speculazioni, margine di prodotto e tante altre che per carità devono esistere ma non sempre e in ogni posto. E' una precisa identità culturale che ci rende forti nel difendere il nostro territorio, nel respingere tentazioni e compromessi che all'insegna della monetizzazione totale avrebbe fatto assomigliare la nostra isola a una delle tante regioni asiatiche che oggi in nome di un non chiaro sviluppo industriale stanno morendo avvelenate dagli scarichi che migliaia di ciminiere immettono nell'ambiente. Qualcuno in passato ha pensato di disegnare una Sardegna così, ma più che gli insuccessi imprenditoriali è stata la coscienza di ognuno di noi che si è opposta, e grazie a ciò stiamo per consegnare alle nuove generazioni un ambiente che altri sognano, una società meno condizionata di altre da elementi di negatività e di insicurezza, meno segnata rispetto a altre quantunque più opulente dai solchi della criminalità organizzata. Cari colleghi, è necessario riflettere su certe cose, è necessario per un attimo fermare il mondo, come diceva qualcuno, per verificare se i nostri ragionamenti , se ciò che ci accingiamo a fare è la cosa più giusta. Si è parlato tanto di colonizzazione moderna della nostra isola, di fronte a tante critiche che ci hanno dipinto come antitetici di un processo di modernizzazione invocato da molti, io dico che abbiamo visto giusto, abbiamo fatto bene a non cedere a certe chimere che in nome dello sviluppo tendevano a sacrificare l'ambiente, oggi assistiamo in altre parti a recuperi affannosi di ambiente distrutto, noi lo abbiamo semplicemente evitato perché contrastava con la nostra cultura, ripeto con quell'essere isolani formati dalle tradizioni, dalla cultura, dalla lingua e dall'insegnamento di valori ai quali non rinunciamo. Ecco il perché di una legge che in questo caso rappresenta l'atto che sancisce il principio, che da un valore superiore, che assicura una continuità; ritengo estremamente necessario assicurare attraverso la norma legislativa che la lingua sarda, che è in effetti quell'indissolubile anello di congiunzione tra la cultura, la tradizione, il sentimento popolare antico e moderno, gli usi, i costumi, i canti, le rappresentazioni, le sagre, sia un patrimonio non solo nostro ma anche delle future generazioni. Signor Presidente, colleghi, a conclusione del mio intervento non posso esimermi dall'esprimere il mio apprezzamento per il lavoro che hanno svolto il Presidente e i commissari dell'Ottava commissione, unitamente all'assessore Serrenti che, con la sua assidua presenza in Commissione, ha fatto sì che oggi questo testo sia all'attenzione dell'Aula per essere discusso e mi auguro approvato.
PRESIDENTE. Ha domandato di parlare il consigliere Masala. Ne ha facoltà.
MASALA (A.N.). Signor Presidente del Consiglio, signori Assessori, colleghe e colleghi, a mio giudizio nell'intervenire nel dibattito su questa legge, occorre sgombrare il campo da ogni equivoco, occorre cioè verificare perché fin dal titolo si distingue la cultura dalla lingua, occorre spiegarsi perché in tutto il testo del disegno di legge si fa sempre una distinzione tra lingua e cultura e nel contempo affermare che, quando si parla di lingua, non ci debbano essere riferimenti di natura ideologica, perché se la lingua è una espressione della cultura, fa parte della cultura di per sé e quindi quando si parla di cultura non c'è bisogno di fare una distinzione e una specificazione di lingua. Perché se si vuole distinguere, se si vuole specificare, se si vuole mettere su un piano e su un livello differente la cultura dalla lingua è di tutta evidenza che questa strada nasconde un percorso e una finalità che noi dobbiamo esaminare. Ora che cosa intendo quando dico che bisogna sgombrare il campo dagli equivoci, intendo cioè affermare che il Gruppo di Alleanza Nazionale che pure per bocca di suoi due esponenti si è espressa sfavorevolmente a questa legge relativamente alla parte che guarda alla lingua mentre è tutto intero, tutto compatto favorevole al sostegno, alla valorizzazione e alla promozione della cultura sarda? Evidentemente è perché di questa legge ha una chiave di lettura un pochino diversa che trova la sua giustificazione in quanto ho detto in premessa, cioè nell'esigenza che i proponenti della Commissione hanno avuto di fare una distinzione nel separare la lingua dal contesto della cultura quasi che si trattasse di due cose diverse. Allora diciamo questo, che quando già dall'articolo 1 si afferma che la Regione assume l'identità culturale del popolo sardo come bene supremo eccetera, è chiaro che qui è compresa anche la lingua, o le parlate, le lingue, quindi sarebbe stato di per sè sufficiente questo per far seguire a questa legge un percorso diverso da quello che sta percorrendo. Perché se noi la impostiamo soltanto in termini di natura culturale, allora io posso dire di rientrare in quel 14 per cento che il relatore della legge stamattina individuava tra i sardi che parlano il sardo. Io so parlare il sardo, io penso in sardo, a differenza stando alle affermazioni, alle testimonianze di un collega di Gruppo, di quanti altri che sostengono con maggiore forza di me questa legge non sanno né parlare né soprattutto pensare in sardo, che è una cosa diversa dal parlare il sardo. E rivendichiamo anche di essere in possesso del DNA dei sardi, e quindi ci sentiamo parte integrante della Sardegna, dei sardi e della sardità. Quindi sotto questo profilo non accettiamo discriminazioni di sorta. Però io devo notare che questa legge che giunge oggi, settembre 1997, in quest'aula, è in realtà la stessa legge che era stata elaborata nelle legislature passate in un clima di contestazione tra la Regione e lo Stato, cioè in un clima particolare, un clima politico particolare in cui soffiava un certo vento che giocoforza doveva ottenere l'affermazione di determinati principi; e diciamo dal loro punto di vista anche di determinati valori. Giunge in ritardo rispetto a questi tempi, perché nel frattempo climi politici diversi si sono realizzati, si sono affacciati nello scenario nazionale. 15 settembre 1996 su tutte le rive del Po i leghisti si raccolsero per cominciare ad effettuare quel percorso per separare quella che loro chiamano la Padania dal resto d'Italia; non una forza politica; non un sindacato in quella circostanza si mosse ad eccezione di Alleanza Nazionale per cercare di contrastare il passo alla Lega. Il 15 settembre, cioè lo stesso giorno, noi tenemmo a Milano una manifestazione di carattere nazionale ed antiscissionista o separatista, antisecessionista. Settembre 1997, a seguito di episodi deprecabili, quali l'incendio di effigi di personalità del mondo sindacale, minacce di bruciatura di tessere sindacali, il mondo sindacale, non solo quello ma anche quello politico, si è invece levato, giustamente, e per il 20 di settembre hanno organizzato una manifestazione a Milano, in alta Italia, contro la secessione. Non sono fuori tema questi argomenti, perché è vero che Maroni quando è stato ospite del Parto Sardo d'Azione in Sardegna ha parlato in italiano, è vero che l'onorevole Bonesu quando ha i suoi incontri con i rappresentati della Lega parlano in italiano, è vero che scrivono in italiano, è vero che la Lombardia parla italiano, come il Veneto e come il Piemonte perché sono italiani, non possono parlare altra lingua se non quella che è la loro, ed è la lingua italiana. Ma attenzione, il gruppo leghista al Consiglio regionale di questa legislatura in corso, cioè quella eletta nel 1995, come primo atto ha presentato un progetto di legge per l'istituzione del bilinguismo in Lombardia. Perché? Perché la maggioranza dei lombardi parlano lombardo, non parlano italiano? No, perché evidentemente è un tassello di quel disegno secessionistico che è ormai davanti agli occhi di tutti e dichiaratamente affermato. Si è parlato, si è detto anche molto bene devo dire, di lingua e di mancata identità tra la lingua e gli Stati. E' vero, anche nell'ottocento era così non solo oggi. Nell'Ottocento noi avevamo delle nazioni, anzi dei popoli che parlavano la stessa lingua e che erano divisi in Stati diversi, come pure avevamo degli Stati che erano plurilingue; basta pensare all'impero astroungarico dove una parte parlava austriaco e quello che noi chiamiamo austriaco in realtà era tedesco, e altra parte invece parlava ungherese. Eppure i tedeschi si sono trovati divisi in Germania, in Austria, una parte era anche nella Cecoslovacchia, però erano la nazione. Non bisogna confondere lo stato con la nazione. Allora noi abbiamo il popolo che è una aggregazione di persone che vivono in un determinato territorio; quando questo popolo ha comunanza di cultura, quando questo popolo ha anche identità poniamo religiosa, e quando ha anche identità di lingua, allora diventa nazione; e se questo popolo che è diventato nazione riesce ad avere anche un territorio e ad esercitarvi la sovranità, diventa uno stato, ma non necessariamente la nazione coincide con lo stato. Per cui in teoria, io spero di non dover conoscere una eventualità di questo genere ma, in teoria, lo stivale italiano abitato da italiani che parlano italiano, io spero che rimanga un unico stato che ci sia cioè coincidenza tra nazione e stato e, Dio non voglia, che tra poco o tra molto ci trovassimo invece davanti ad una nazione divisa in due o più stati; questo a dimostrare che nono esiste identità tra stato e nazione ma sono due valori completamente diversi. Allora quando si dice che la lingua serve solo come mezzo di comunicazione, si dice una cosa sbagliata, ma nel mentre si afferma questo e si attribuisce un futuro quasi oggi all'inglese si dice che l'italiano deve essere ridotto a lingua di cultura, e il sardo, è stato affermato, il lingua di comunicazione. Questi sono i tre livelli che io oggi ho sentito indicare per le lingue. La lingua per le comunicazioni, cioè l'inglese, la lingua per la cultura perché ha avuto un ruolo importante in questi mille anni di espressione culturale italiana è destinata, relegata alla cultura al pari del latino e del greco, e la lingua viva, quella parlata, che è l'idioma locale, sarà il sardo per i sardi, sarà il siciliano per i siciliani, sarà il lombardo per i lombardi. Questo è il quadro che è stato enunciato in questa sede. E siccome la fonte, cioè colui che l'ha detto è molto addentro in questi lavori io debbo credere più a quello che è stato detto in quest'aula poco fa che a tutte le affermazioni volte a negare che esista una finalità diversa da quella che noi andiamo a denunciare, e cioè che intanto quando il popolo diventa nazione ha una sua lingua, e quando questa sua lingua si rompe, si incrina l'unità nazionale. Vi leggo due passi brevissimi, il primo è una considerazione e tra parentesi io sono sorpreso del fatto che la Corte Costituzionale, forse non era stata sollevata la questione, non abbia dichiarato l'incostituzionalità di tutta la legge, nella misura in cui la legge afferma di fatto il bilinguismo. Perché io mi chiedo, e questa considerazione la pongo alla riflessione dei Popolari, alla riflessione del Patto dei Democratici, nelle varie versioni, agli stessi Progressisti del P.D.S.: ma scusate, voi vi ricordate quante volte è stata fatta la proposta di legge, a livello nazionale, per l'istituzione in Italia del bilinguismo? Ci sono state numerosissime battaglie eppure da qualche anno a questa parte, a livello nazionale, non si parla più dell'istituzione del bilinguismo; perché? Mi chiedo perché, eppure dovrebbero essere più maturi i tempi, perché non siamo nell'era delle ideologie, abbiamo superato questa fase, quindi dovrebbe essere più facile fare questa affermazione. E intanto, pur essendo anche oggi, a livello di maggioranza, per esempio, dei partiti, Gruppi parlamentari che potrebbero garantire un'immediata approvazione di una legge di questo genere, di legge nazionale per l'istituzione del bilinguismo non se ne parla neanche più. Ci deve essere una ragione; ci deve essere la ragione che è da individuare nella paura che la disgregazione dell'unità linguistica possa agevolare la disgregazione dell'unità nazionale. L'unità linguistica è l'elemento fondamentale dell'unità nazionale, sicché la rottura di essa vulnera l'articolo 5 della Costituzione che consacra, appunto, l'unità e l'indivisibilità della Repubblica. Neppure la bicamerale ha avuto il potere e ha il potere, Bossi lo sta chiedendo però, gli hanno rigettato quegli emendamenti, dichiarati inammissibili, ha letto ieri una proposta di legge perché la bicamerale venga investita anche della possibilità di modificare l'articolo 5 della Costituzione. Evidentemente serve a qualcosa questo articolo 5 della Costituzione; deve essere un ostacolo, evidentemente, aella realizzazione di disegni che, nel caso della Lega, in questo momento, nient'altro sono che quelli secessionistici. E non mi si venga a dire che hanno disegni diversi da questi, dal momento che lo dichiarano apertis verbis. Allorché si pretende di opporre la diversità di una seconda lingua di fronte alla lingua italiana e si rivendica o il bilinguismo o tutele che stravolgono l'idioma nazionale, quella rottura, se non è in atto, è già potenziale e incrina la forza garantista della Carta fondamentale dello Stato. Un'altra affermazione è la seguente: se esiste e c'è stretta connessione tra lingua e nazione possiamo affermare che dove c'è unità linguistica c'è unita nazionale. Se si corrompe la prima si frantuma la seconda; su questo non ci piove. E' assodato, è scientifico, è dimostrato, è uno dei primi grimaldelli che quando si vogliono realizzare le separazioni vengono utilizzati: quello della lingua, la frantumazione dell'unità linguistica. Allora, in conclusione, io debbo dire, e questo lo dico a titolo personale, ma anche a nome del Gruppo, che se questo disegno di legge avesse accantonato questa specificazione che è stata fatta, cioè della lingua, questo percorso separato che è stato riservato alla lingua, noi non avremmo avuto alcuna difficoltà, perché non avremmo intravisto, di fronte al non dichiarato, perché se uno con la riserva mentale di utilizzare la lingua come grimaldello, però non me lo dice perché è inserito nel contesto della cultura, io non avrei avuto difficoltà ad accettare questa cosa perché obiettivamente noi siamo per la valorizzazione della cultura, della quale vediamo anche un'utilizzazione diversa dall'aspetto squisitamente culturale, perché l'elemento cultura deve essere inserito anche in un contesto, in una visione di utilizzazione, per esempio, anche dal punto di vista economico, per esempio, per farne una componente del sistema turismo. Allora, siccome però questo non è stato fatto, io devo dire questo: primo, va bene promuovere lo studio dei costumi, tradizioni, lingue locali per conservarne la memoria storica; non va bene invece mutare un fine di ricerca, di informazione, di catalogazione come questo, in un fine di promozione concorrenziale, e questo vi richiama all'attenzione dei colleghi, o del tutto sostitutiva della comune lingua italiana; e questo è il punto. Quando cioè si dice che la lingua sarda, che poi anche l'onorevole Bonesu ha detto: attenzione, è pericoloso dire lingua sarda, perché di lingue ce ne sono tante, e quindi bisogna vedere quale, oppure devono essere tutte quante tutelate e avere pari dignità, per cui non avremmo più una pari dignità tra italiano e sardo, che non esiste in quanto tale, in quanto lingua comune. Esiste il campidanese, è stato ricordato, il sassarese, il gallurese, il logudorese e tante altre lingue parlate, ma non esiste un'unica cosa, per cui il dire che esiste una identità, che esiste una pari dignità della lingua sarda, che non esiste, perché nessuno la conosce, e l'italiano, è dire una cosa non vera. E allora quando si dice comunque che la lingua sarda deve avere pari dignità della lingua italiana, nient'altro si fa che affermare che la promozione della lingua sarda deve essere fatta in modo concorrenziale o, addirittura, sostitutivo della comune lingua italiana. Questo è quanto doveva essere detto sull'argomento.
PRESIDENTE. E' iscritto a parlare il consigliere Scano. Ne ha facoltà.
SCANO (Progr. Fed.). Io vorrei iniziare, signor Presidente e colleghi, dicendo che il provincialismo, lo dico con molto rispetto, naturalmente per posizioni differenti dalle nostre, ma il provincialismo è una brutta malattia. Mi spiego, io mi sforzo, ma non riesco a capire sul serio cosa c'entri questa legge con il tema dell'unità nazionale. Sapete come finirà questa vicenda se non ci sbrighiamo? Finirà che la tutela e la promozione della lingua sarda, ecco perché parlo di provincialismo, ci verranno imposte dal Parlamento di Strasburgo e da quello di Roma; cioè ci verrà imposta dai tedeschi e dai toscani. Italo, con la stima profonda che ti porto (e tu lo sai che questa è affermazione sincera) il tuo è un discorso di un serio, nobile, gentil uomo dell'Italia risorgimentale. Questa legge non ha anche a vedere con l'unità d'Italia, questa legge ha a che vedere, mi esprimo così, con l'unità dei sardi, con la vita e la prospettiva dei sardi. Cioè il punto non è difendere il folclore, il punto è ridare un'anima a noi stessi, ridare un'anima a noi stessi. Ha fatto bene Salvatore Zucca, stamattina, a sottolineare l'importanza e perfino la solennità della discussione. Poi voglio dire che il fatto che tale rilevanza non venga compresa da tutti (consiglieri, Giunta, forse stampa, vedremo) non deve meravigliare, non deve meravigliarti, Salvatore Zucca, e non deve meravigliarti, Salvatore Bonesu, perché - mi concedo anch'io una citazione - sideron plein didascheis, la prendo dal Vangelo di Marco, e significa: tu insegni a un pezzo di ferro a navigare. E di pezzi di ferro, purtroppo, il mondo è pieno.
Le proposte per una normativa di tutela e promozione della lingua e della cultura sarda hanno una lunga storia e hanno attraversato un percorso accidentato, è stato ricordato. Nella IX legislatura la clamorosa bocciatura in aula, a scrutinio segreto, naturalmente; nella X il conflitto col Governo, il pronunciamento della Corte costituzionale; nella XI un lavoro serio e paziente, di cui va dato atto all'ottava Commissione. Tutto fa pensare che questa possa essere la volta buona, eppure non siamo che agli inizi, perché all'approvazione della legge dovrà seguire l'attuazione della stessa, e non sarà questa una sfida di poco conto. Deve inoltre costituire per noi motivo di riflessione il fatto che accade spesso, ahimè troppo spesso, che noi sardi partiamo in anticipo rispetto agli altri, con un ottimo scatto ai blocchi di partenza, e poi ci ritroviamo in coda. Il Parlamento europeo, appunto, è assai più avanti di noi in questa materia. Così è per lingua e cultura, così è per zona franca, così è per i poteri dell'autonomia, così è per i rapporti Regione-comuni. La legge che stiamo esaminando e il processo della sua applicazione, del suo perfezionamento e adattamento, possono costituire un'operazione - hai ragione Peppino La Rosa quando dici: speriamo di aprire una stagione nuova - veramente incisiva sulla cultura dei sardi, sulla capacità espressiva e creativa dei sardi, su noi stessi e sul nostro avvenire. Ci sono posizioni differenti tra di noi, lo so bene, confrontiamoci. Noi, sostenitori di questa impresa non vogliamo e non pretendiamo di persuadere tutti. Personalmente mi accontenterei che negli avversari della legge, che legittimamente e con onestà intellettuale sostengono le loro posizioni, anche in Frau e Boero, sorgesse un dubbio, perché, seconda citazione e poi non ne faccio altre: dubium sapientiae initium ha scritto Cartesio, e non traduco per non rischiare di essere offensivo, perché mi sembra molto chiaro. Esatto, quasi sardo, non so se sassarese o logudorese. Molti hanno pensato e pensano che occuparci di lingua e tradizioni sarde sia un'operazione astratta, cioè scissa dai problemi quotidiani primari dell'economia, o un'operazione forzata, frutto di un'ideologia conservatrice o passatista, perfino isolazionista o secessionista. O un'operazione antimoderna, antiprogresso, volta, peraltro velleitariamente, perché questo non è possibile, a riportare indietro le lancette dell'orologio della realtà. Ecco, nel mio intervento io voglio occuparmi di queste obiezioni e di queste riserve, perché sono ben presenti qui dentro e fuori di qui. Desidero, prima di far questo, dare atto, e lo faccio perché rimanga scritto, a nome del mio partito e del mio Gruppo, alla cultura sardista e alla formazione politica che ne è in primo luogo espressione, il Partito Sardo d'Azione, di una lotta portata avanti con successo, perché tanti, e noi fra questi, la cultura della sinistra fra questi, abbiamo maturato posizioni diverse. Va detto a chiare lettere che noi non saremmo qui a discutere se non ci fosse stata una forza che per decenni, ostinatamente, tenacemente, ha posto la questione della lingua e della cultura sarda.
Il primo punto che io intendo sottolineare riguarda il rapporto cultura-economia. Si sente dire: viviamo un momento drammatico, i sardi chiedono lavoro, sviluppo, occupiamoci di questo, e se proprio vogliamo legiferare in materia di lingua e di cultura almeno cerchiamo di non spendere una lira. Questo tanti pensano, perché non dirlo? Io non credo, naturalmente, che tra economia e cultura esista un rapporto meccanico, per cui la riscoperta della identità e della lingua possa innescare di per sé una ripresa della crescita economica e sociale. Però c'è un rapporto, questo sì, tra subalternità culturale e dipendenza economica e sociale; c'è un nesso tra il grado di coscienza di una collettività e la capacità di utilizzare le risorse disponibili, le capacità di organizzazione e anche le capacità di produzione. Allo stesso modo mi pare di poter dire che c'è un nesso tra l'atteggiamento che noi abbiamo avuto finora verso la nostra lingua, la nostra cultura e l'incapacità che storicamente abbiamo dimostrato, da una parte nella tutela dell'ambiente, dall'altra nella valorizzazione del turismo. La debolezza in Sardegna dello spirito d'impresa c'entra questo col discorso sulla cultura sarda - altro che non c'entra! -, la fragilità della nostra organizzazione sociale e civile. Cioè si può rilevare, a me pare, un tratto di fondo: nell'economia e nella cultura prevale largamente il consumo di ciò che è prodotto altrove, mentre è assai debole la nostra capacità produttiva, sia di beni materiali che di beni immateriali. E' la passività, insomma, l'essere - questo è il punto - oggetto e non soggetto di storia, che segna con forza il nostro essere collettivo, la nostra comunità.
La frase che, a mio giudizio, esprime meglio il compito storico che sta di fronte a noi, che sta sulle nostre spalle, mi sembra quella felicissima posta da Michelangelo Pira come titolo di una delle sue opere: "La rivolta dell'oggetto". La rivolta dell'oggetto, questo è il compito. Si tratta cioè di rovesciare lo status quo: se l'oggetto non si scuote, se l'oggetto non si risveglia, se l'oggetto non si rivolta, se l'oggetto non diventa soggetto, saremo sconfitti. Nell'economia, come nella cultura, nella organizzazione sociale e civile, nel nostro mondo spirituale come nel nostro modo materiale di organizzare l'esistenza. Dunque, fare questa operazione che stiamo avviando non si traduce in un parlar d'altro rispetto all'urgenza dei problemi materiali, ma significa occuparsi di sviluppo, occuparsi di lavoro, occuparsi di ambiente e anche di impresa.
La seconda considerazione riguarda il rapporto tra identità e modernità, e parlo avendo chiaro che tra qualche decennio il mondo, al di là delle parlate locali, parlerà inglese, non l'inglese di Oxford, parlerà un inglese estremamente semplificato e corrotto, corrotto nel senso etimologico del termine, e che tra qualche decennio, o forse prima, chi non avrà dimestichezza con la telematica sarà irrimediabilmente tagliato fuori, e noi verremo presi in giro dai nipotini, se già non accade.
Identità e modernità non sono due valori antagonistici, questo è l'altro tema che voglio sottolineare, tale che l'affermazione dell'identità comporti la negazione della modernità, o viceversa. C'è il rischio, questo sì, che l'identità possa essere pensata come negazione dell'altro da noi, cioè per poter essere me stesso ho bisogno di negare l'altro, e c'è il rischio, d'altra parte, che la modernità venga concepita come una sorta di negazione di noi stessi. Io penso che identità e credo che la gran parte di noi pensiamo che identità non sia rinchiudersi in un guscio, così come modernità non è uscire da se stessi, penso che noi possiamo riscontrare in noi stessi, se esaminiamo lo stato del nostro popolo e della nostra terra, insieme sia un deficit di identità sia un deficit di modernità, e compiere l'opzione, la scelta dell'identità serve anche per aprirci, per accedere con il nostro volto e la nostra voce, questa è appunto l'identità all'Europa, al mercato, alla cultura più moderna e più avanzata. L'obiettivo storico della cittadinanza unica per gli europei non passa per il sacrificio delle comunità culturali e storico-politico, il primo a dirlo è proprio il Parlamento europeo, è la cultura dell'Europa più avanzata. Per fare l'Europa non servono fotocopie, non servono manichini, servono soggetti, le identità, le culture, le lingue dalla competizione, dall'intreccio, dall'incrocio non vengono diminuite, anzi nello scambio acquistano maggiore presenza. In questo modo andrà sviluppata la stessa unità europea. Non dobbiamo quindi pensare alla modernità come ad una prosperità uniforme nella quale tutti sono uguali, giapponesi, americani, italiani, sardi e inglesi, dobbiamo invece pensare alla modernità come ad una cultura a cui tutti partecipano, ma che è differente dappertutto. C'è una frase che a me sembra molto bella, l'ho citata in un dibattito precedente, nella scorsa legislatura, sulla stessa materia, e voglio rifarlo, una frase molto bella di un filosofo tra i maggiori del nostro tempo, si chiama Hans Gardamer, il quale dice: "non c'è futuro senza ritorno, il ritorno è il futuro". Dove naturalmente il ritorno non sta a significare il passato, non sta a significare il chiudersi nel proprio passato, il ritorno è il soggetto, è il farsi, è il processo, è l'identità, è la storia, è il patrimonio umano e anche la fisicità dell'ambiente in cui un popolo vive e lavora. La terza considerazione riguarda il rapporto Sardegna-Italia, non mi riferisco tanto alla relazione tra culture, su questo piano mi sembra chiaro che l'affermazione della cultura sarda e della lingua sarda non può essere realizzata come negazione della cultura italiana e della lingua italiana, ma come costruzione di un'identità più complessa e più ricca. Nessuno pensa che noi dobbiamo spogliarci, sarebbe un folle, dell'essere italiani o europei per essere sardi, nell'intreccio delle culture, la singola cultura non si impoverisce - dicevo prima - bensì si arricchisce. Parlo di un altro tema, del rapporto Sardegna-Italia come relazione tra mondi storico-culturali e anche politico-culturali, tra universi differenti per quanto collegati, per dire, e lo dirò senza giri di parole, senza trucchi, in modo molto lineare e molto tranquillo, che dalla questione dell'identità discende la questione dell'autoderminazione senza che ciò metta minimamente in pericolo l'unità, la compattezza, la coesione della compagine italiana. Non ho timore ad usare questo termine e anche se ci chiariamo che cosa significa e se abbiamo piena consapevolezza dei concetti, anche il termine stesso di sovranità. Dalla questione dell'identità discende una questione di sovranità, si pone una questione di sovranità, poi si tratta di vedere come viene affrontata. Se il popolo sardo, questo è il ragionamento, è un popolo distinto, a mio giudizio il popolo sardo è un popolo distinto, esso ha diritto, come ogni popolo distinto, all'autodeterminazione. La presa di coscienza di se stessi implica una rivendicazione di sovranità, per cui i popoli debbono poter decidere liberamente del proprio statuto politico e perseguire liberamente lo sviluppo economico, sociale e culturale. Allora, la questione dell'autodeterminazione, o se volete della sovranità, si pone se siamo un popolo distinto, ma si pone naturalmente in termini radicalmente diversi rispetto al passato, siamo nell'epoca dell'interdipendenza, della globalizzazione, questo che cosa cambia? Cambia tutto, cambia il fatto che oggi non si può avere potere su se stessi se non si è partecipi di un potere più vasto, questa è una differenza fondamentale rispetto alla fase della formazione dell'identità statuale. Ecco perché la soluzione per vincere la dipendenza, perchè dovremo battere la dipendenza se vogliamo avere futuro, non è la indipendenza ma la ricostruzione di forme nuove dello Stato italiano e la costruzione dell'Europa, degli Stati Uniti d'Europa. In quest'orizzonte va pensato l'autogoverno dei sardi, mentre l'autonomia attuale è inservibile e lo Stato italiano è scosso e rimesso in questione dalle fondamenta; penso a Bossi, penso alla Bicamerale. Proprio oggi è ripreso nella Bicamerale l'esame del tema "forma dello Stato", nel comitato ristretto per esaminare gli emendamenti. La Sardegna deve essere pronta, ed oggi con il lavoro svolto negli ultimi mesi da questo Consiglio lo siamo, non del tutto pronti, ma sicuramente più di prima, o a collocare se stessa nella revisione di tipo autonomistico e federalistico dello Stato, se questo sarà, ma è assai improbabile che questo lo sia, o se questa prima ipotesi fallisce - è assai probabile - a rilanciare, forti dell'esperienza per quanto contrastata e in una certa misura sconfitta, l'esperienza dell'autonomia, rilanciare una rinegoziazione bilaterale del rapporto Stato-Regione e anche Sardegna-Italia. Una considerazione specifica, e mi avvio a concludere, sul tema della lingua. Le visioni, è stato detto, falsamente cosmopolite e modernistiche, sono state largamente spazzate via, se ricordiamo i dibattiti sulla lingua e sulla cultura degli anni sessanta e settanta in Sardegna, grandi, animati e combattuti dibattiti, ci rendiamo conto di quanto strada è stata fatta e del ritardo con il quale tanti di noi, anche le forze, la cultura, il pensiero della sinistra, ci siamo liberati da schematismi, da ideologismi, da vere e proprie ottusità. Detto questo, aggiungo che c'è anche un'altra concezione da abbattere, e nella storia di questa proposta di legge questa tentazione si è più volte presentata, e cioè la tentazione di una concezione povera e burocratica della lingua. La lingua sarda, con l'insegnamento nelle scuole, con l'accesso agli strumenti di comunicazione, con la sperimentazione, entrerà in un nuovo circolo, riprenderà a muoversi, a respirare, a vivere, e questo va detto. Altra cosa è la burocratizzazione, la forzatura, la legge può e deve aiutare il processo reale, indurlo anche, ma se pretendesse di sostituire il processo reale potrebbe finire per creare il rigetto della lingua sarda da parte degli stessi sardi e comunque non avrebbe successo. Penso quindi che occorrerà molta misura, determinazione, coraggio, certo, nell'avviare con norme certo, e quindi anche con la forza della legge, questo processo, ma anche intelligenza e saggezza per non eccedere. E' proprio per tali ragioni che noi giudichiamo il testo attuale assai più valido e convincente rispetto ai testi esaminati dall'Assemblea nella nona e nella decima legislatura; è sparita quasi del tutto la struttura operativa pesante, macchinosa, farraginosa che caratterizzava la proposta di legge, soprattutto quella iniziale. Voglio anche dire: "evitiamo ora, dopo aver operato un miglioramento e uno snellimento di peggiorare il testo con emendanti reintroducendo istituto di tipo pachidermico che non sarebbero assolutamente utili a nulla". Ultima riflessione, sulla questione della soggettività dei sardi, sulla questione cioè della necessità per noi di affermarci come soggetto nella produzione, nella cultura, nel lavoro e nel pensiero. Noi sardi stiamo correndo il pericolo di consumare le nostre possibilità di sviluppo e di autogoverno. Può essere che io esageri ma se dovessi descrivere con una immagine lo stato della Sardegna ricorrerei, pensando anche alla cronaca, purtroppo usuale nei mesi estivi, alla metafora dell'incendio. Sembra un po' la metafora della nostra condizione materiale e culturale. Da tempo non riusciamo, non mi riferisco alle polemiche politiche contingenti, da tempo non riusciamo come sardi, come gruppi dirigenti della Sardegna, a porre con capacità strategica il tema dello sviluppo sardo. L'idea forza della prospettiva della nostra isola a noi pare stia proprio nel nesso identità-modernità che è il cuore di questa legge, cioè la volontà di affermazione di sé può costituire un punto di forza per lo sviluppo economico e sociale, ciò che Zucca diceva stamattina "la sicurezza del proprio essere", la coscienza di sé come leva da spendere anche sul terreno dei meccanismi dello sviluppo e dell'economia. La strategia dello sviluppo sardo non va mutuata passivamente da altre esperienze, non dobbiamo limitarci a percorrere strade già percorse da altri. Identità-modernità, questo binomio indica la via di uno sviluppo che poggia in primo luogo sulle risorse interne, che abbia cioè come contenuto essenziale e primario la qualità ambientale e culturale dello sviluppo. La legge che ci apprestiamo ad esaminare, a nostro giudizio, ha una grande importanza, è un passo, poi ci sarà un cammino da fare, verrà sicuramente - lo diceva Bonesu prima - riesaminata, migliorata, corretta. La rivolta dell'oggetto, per riprendere una frase di Michelangelo Pira, la rivolta dei sardi parte da qui, la possibilità di riscatto presuppone questo atto di consapevolezza; il senso profondo di questa legge io credo che sia questo, che si deve partire da un atto di consapevolezza, da un riconoscimento di sé, da un riconoscimento di noi stessi come sardi. C'è un muro che ci separa da noi stessi, ed è un muro che ci ha portato in una certa misura ad essere estranei a noi stessi, al nostro ambiente, alla nostra vita civile. E' questo il muro che va abbattuto, il riappropriarci, e la legge è uno strumento possente che va in questa direzione se sapremo applicarla, riappropriarci quindi della identità costituisce il primo passo, il riprendere la parola costituisce la premessa perché si possa ripartire e ricominciare. Concludo con una frase di Renzo Laconi "il popolo sardo non è all'inizio del processo, non si tratta di estrarre dal passato come da una miniera una identità che c'è già tutta lì; dobbiamo invece vivere la costruzione dell'identità e del popolo, del soggetto di storia". Io penso che questa legge sia un piccolo passo, ma importante, in questo cammino che è dinanzi noi.
PRESIDENTE. Poiché nessun altro domanda di parlare, dichiaro chiusa la discussione generale.
Per esprimere il parere della Giunta ha facoltà di parlare l'Assessore della pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport.
SERRENTI (P.S.d'Az.), Assessore della pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport. Signor Presidente, colleghi, non è la prima volta che in quest'Aula si dibatte un argomento così importante; quando dico importante lo dico nel valutare l'importanza che ha non solo per chi come me ritiene fondamentale che la Regione sarda si dia una legge come questa, ma anche perché il dibattito sulla lingua sarda ha come dire alimentato posizioni diverse, ma anche un dibattito molto vivo che si è snodato nell'arco di anni fuori da quest'aula e dentro quest'aula. Da questo punto di vista ha ragione qualche collega che ha sottolineato la non grandissima partecipazione del Consiglio a questo dibattito, perché non si capisce bene se questo è frutto di un clima di carattere generale oppure di una perdita di interesse invece per un tema che, a ragione, è stato definito da alcuni colleghi importantissimo, una sorta di pietra fondamentale per il futuro e per la storia dei sardi. Io credo che il problema della lingua sia un problema praticamente sempre esistito in Sardegna, un problema che ha comunque resistito di per sé come argomento che doveva essere affrontato e che doveva trovare una soluzione. La Sardegna per la sua posizione geografica, per l'importanza strategica che ha avuto sempre nei conflitti mondiali e nell'economia del Mediterraneo, è stata sottoposta a dominazioni di diversi popoli, popoli di origine semitica, fenici, punici che hanno imposto l'uso della loro lingua; i romani che hanno imposto l'uso del latino, gli spagnoli che in tempi più recenti, dal 1300 al 1700, avevano imposto l'uso dello spagnolo e dal 1700 in su l'uso dell'italiano. Il problema della lingua sarda è quindi esistito in tutti questi passaggi, un problema che è rimasto come tale, una lingua che comunque ha resistito, una lingua che certamente è cresciuta, si è evoluta, mutuando, pescando a piene mani in quelle culture, come d'altra parte tutte le lingue. Questo non rende la lingua sarda un ibrido rispetto alle altre, una lingua corrotta nell'accezione del termine che veniva usato dal collega Scano. E' una lingua, tutte le lingue crescono, mutuano dall'esterno, la stessa lingua italiana è piena di espressioni di tipo francofono o inglese o di altra natura. Quindi la lingua sarda è cresciuta, certo con varianti al suo interno, io credo che affrontare il dibattito ormai superato di quale sia la vera lingua sarda, sia una sorta di tornare indietro, credo che invece bisogna guardare avanti. Ma rientrando agli aspetti che più mi interessano vorrei ricordare le battaglie che alla fine degli anni '60, negli anni '70 e nei primi anni '80 si sono fatte per acquisire e definire un problema che necessitava di essere risolto per consentire alla Sardegna di entrare non solo nella cultura italiana ma nella cultura europea e internazionale. Voglio ricordare il Comitato per la lingua sarda che in quegli anni si muoveva nelle piazze, raccoglieva firme, ricorderete i cartelli "una firma po cumenzare" e quelle firme sono state alla base appunto del dibattito politico al quale mi riferivo e che hanno consentito oggi di arrivare in quest'Aula per definire una legge che, io mi auguro, abbia migliore fortuna di quella che ha avuto la legge che abbiamo votato nella nona legislatura e le iniziative che abbiamo preso nella decima legislatura, e finite come tutti sapete. Ma non c'è dubbio che il problema della lingua pone questioni di ordine diverso. Io credo che però bisogna uscire da un luogo comune, che è quello che il problema della lingua sarda pone un problema solo di tipo ideologico, che mira a dimostrare l'esistenza di un popolo che si chiude al suo interno e che rifiuta ogni collegamento, col paese del quale fa parte, paese con la "P" maiuscola, l'Italia e il contesto europeo del quale fa parte e, direi di più, l'umanità della quale si sente parte importante. Io vedo un po' il problema della lingua come una sorta di cerchi concentrici al centro del quale c'è un punto, quel punto è l'uomo, con la sua individualità, il primo cerchio potrebbe essere la sua famiglia, il secondo potrebbe essere la comunità, il paese con la "p" minuscola, dove abita, il terzo potrebbe essere la Regione, il quarto potrebbeessere lo Stato nazionale al quale partecipa, il quinto l'Europa. L'ultimo, il più grande, il mondo. Il mondo, lo spazio fisico all'interno del quale si consumano poi tutte le sue attività. Lo ricordava qualcuno, ed è bene sottolinearlo ancora, che tutto il dibattito sulla lingua oggi si svolge in una situazione complessivamente e completamente diversa. Oggi i sistemi moderni, la tecnologia consentono di racchiudere in spazi piccolissimi un numero enorme di informazioni, ci consentono di comunicare a distanze enormi e in tempi brevissimi, ci consentono di partecipare a un contesto umano con una velocità davvero incredibile. Siamo credo ormai dentro il futuro. Allora pensare che problemi come questi possono essere usati per dividere, per chiudersi, per allontanarsi dagli altri è davvero, credo, una sorta di contraddizione in termini. Io penso un'altra cosa, come dicevo all'inizio, che la questione della lingua ponga problemi di ordine diverso, alcuni dei quali sono certamente politici, altri culturali, altri economici e altri addirittura psicologici. Politici: io voglio ricordare che Gramsci diceva - è stato citato dal collega Zucca - che quando emerge il problema della lingua di solito sono una serie di altri problemi che emergono, tutti politici, che sono certo quello della appartenenza ma anche quello di un rapporto qualitativo con gli altri. Veniva ricordato dalla collega Ivana Dettori che spesso dietro la ghettizzazione della lingua svilita chiamata dialetto, chiamata parlata locale, c'è proprio un problema della collocazione sociale. Le classi agiate, i borghesi che parlano la lingua nazionale, in modo forbito, i lavoratori, gli operai, le classi meno abbienti che non comunicano fra loro con questa lingua elitaria, sono ignoranti e si esprimono attraverso il dialetto, attraverso, nel nostro caso, la lingua sarda. Questo è ciò che ci hanno insegnato a scuola in tutti questi anni; parlare il sardo non era educato, non era corretto, quanti di voi ricorderanno a scuola espressioni del tipo: maleducato, non parlare il sardo. Tutto questo è rimasto come retaggio che ha anche implicanze di ordine psicologico. Io credo invece il contrario, che sia arrivato il momento nel quale i sardi devono guardare il mondo, oltre i cerchi di cui parlavo, per andare a guardare il cerchio più grande, quello più largo che è quello dell'umanità, e capire all'interno dell'umanità qual è il ruolo che devono svolgere. I nostri giovani non possono, per ragioni di tipo economico e non solo, chiudersi all'interno della nostra Regione, devono confrontarsi con gli altri, ma il problema è come si devono confrontare. Si devono confrontare cercando di essere diversi da quello che sono, da quello che sono stati i loro genitori, sradicati dal loro territorio, oppure devono confrontarsi con gli altri partendo dall'orgoglio dell'essere quello che sono, cioè di una consapevolezza orgogliosa della propria identità. Io credo che la strada debba essere questa: le nuove generazioni devono prepararsi ad esser cittadini dell'Europa e del mondo, ma lo devono fare essendo sardi, orgogliosi di essere sardi, orgogliosi di appartenere, peraltro, ad una terra molto bella dove lingua, cultura, paesaggio (è stato anche questo detto più volte stamattina) sono un unicum e la rendono irrepetibile. Ma non come patrimonio egoistico di se stessi, ma come parte del mondo, come parte dell'umanità, come elemento di ricchezza dell'umanità della quale ci sentiamo parte e parte importante perché siamo noi stessi. E poi, dal punto di vista culturale, dal punto di vista culturale ha ragione qualcuno nel ricordare, stiamo attenti che il dibattito su questo argomento è un dibattito in forte ritardo, perché è vero quello che dicevo all'inizio, che il dibattito e il confronto sui problemi della cultura e della lingua ha acceso anche gli animi negli anni passati, però approdiamo forse con molto ritardo alla definizione di questo problema. C'è davvero il rischio che una legge comunitaria o una legge nazionale ci impongano di risolvere questioni che noi non abbiamo saputo risolvere. Ormai le direttive comunitarie sono molte, ne ho una qui che è di qualche anno fa, dove l'Unione Europea riconosce che la diversità, la multiespressività linguistica europea non sono un fatto di divisione, ma sono un elemento di ricchezza europea. Richiama le comunità nazionali a prendere iniziative per il recupero di questo patrimonio, che non è solo patrimonio di se stessi ma ormai è patrimonio d'Europa, tant'è che mette a disposizione finanziamenti per utilizzare le culture locali, tra virgolette, o le culture nazionali intendendo per questa l'appartenenza a un popolo limitato nel campo dell'istruzione, nel campo dei mezzi di comunicazioni di massa, nel campo della vita pubblica e dei rapporti sociali. L'Unione Europea ci dice: dovete fare queste cose. Anche il Parlamento italiano è in ritardo, tuttavia il Parlamento italiano è più avanti. Io credo che tutto il dibattito sulla riforma dello Stato tiene conto e ne tiene conto delle diversità culturali che oggi esistono in Italia. E' vero che ormai in tutta Italia si parla italiano, che sono pochi quelli che parlano in modo non corretto italiano, per lo più generazioni di persone anziane, ormai la lingua nazionale è una lingua che accomuna tutti e non c'è, credo, da parte di nessuno l'intenzione di rifiutare l'italiano come lingua per comunicare all'interno del nostro Paese o anche in altri contesti, ma probabilmente, se andiamo avanti così, io credo che il Parlamento italiano farà leggi, così come avviene negli Stati Uniti, per tutelare lo stesso italiano, perché la necessità di comunicare all'interno di un mercato, che è globale, la velocità, come dicevo, con la quale ormai si comunica, rende anche le lingue nazionali, quelle intese degli stati nazionali, ormai superate, salvo pochissime espressioni linguistiche, ad esempio, per l'Europa, ma direi per il mondo, l'inglese. E all'interno dei paesi anglofoni come gli Stati Uniti, l'inglese rischia di essere lingua minoritaria, tant'è che gli Stati Uniti fanno una legge per la tutela dell'inglese, che viene ormai sopravanzato dalla lingua spagnola, che invece è la lingua dei nuovi emigrati all'interno degli Stati Uniti. Allora, dicevo, tutto il dibattito per il federalismo e per la riforma dello Stato non può non tener conto delle diversità culturali che resistono, al di là di ogni artificio che si porti avanti. Ed è naturale, sappiamo tutti che in Italia esistono non solo minoranze di tipo etnico-linguistico che da secoli esprimono e hanno espressioni della loro cultura molto evidenti, e che, ripeto, arricchiscono la cultura nazionale, ma esistono situazioni nelle quali specie dislivelli di natura economica hanno bloccato le situazioni, per cui le diversità profonde, anche di tipo culturale non mancano(?). naturalmente sono diverse, su queste bisogna intervenire per rimuoverle e per riportare i rapporti di tipo economico tutti quanti allo stesso livello. Però è vero che in Italia ci sono situazioni molto diverse e che queste non possono essere condannate, cancellate da Stato, soprattutto con artifici, ma vanno invece salvaguardate e valorizzate. Il caso della Sardegna, poi, è un caso a sé. E', credo la regione d'Italia dove maggiormente si è sviluppata una cultura autonoma, abbastanza definita e originale, dove la lingua non è un misto di espressioni dialettali, ma è davvero una lingua, e quindi la Sardegna costituisce effettivamente una delle più grandi ricchezze dal punto di vista culturale, appunto, per l'Italia.
Dal punto di vista economico, dicevo, il collega Masala ha fatto qualche passaggio che condivido. Io credo che in un mondo, in un'Europa, dove le diversità culturali resistono, ma dove comunque, per effetto dei media, per effetto della scuola pubblica prevalentemente, per tutta una serie di altre esigenze, quasi tutte di tipo economico, spesso alcune identità anche salvaguardate si rischia di perderle. A questo punto le diversità, che sono un forte richiamo per le curiosità, soprattutto nel campo turistico, queste diversità si perdono, rendendo la proposta turistica di quel paese meno valida, meno capace di entrare in un rapporto di concorrenza con altri prodotti turistici che vengono messi in vendita. Per esempio, se la Sardegna non avesse nessuna diversità che differenza avrebbe nella sua offerta turistica rispetto ad altre parti d'Italia, per esempio la Calabria o la Puglia, dove esiste un mare altrettanto bello, però non è, evidentemente, la stessa cosa. I turisti vengono in Sardegna perché vi trovano non solo un mare bello, beni culturali, paesaggi, luoghi originali, ma trovano una cultura diversa. Queste sono le ragioni per cui spesso i turisti scelgono di venire in Sardegna. Se questo è vero le ragioni economiche sono importanti ed evidenti. Ma c'è un altro elemento di cui parlavo prima: l'Unione europea mette ormai a disposizione risorse economiche piuttosto elevate perché si proceda nel recupero di tutte le culture locali, perché considerate appunto ricchezza d'Europa. I flussi economici spesso sono notevoli e non approfittare di queste occasioni sarebbe davvero sciocco, quando tutte le altre regioni d'Italia e d'Europa accedono a questi finanziamenti in maniera notevole, creando posti di lavoro, se ne è parlato stamattina, creando opportunità di lavoro e di sviluppo. Questo aspetto può sembrare meno importante, ma in realtà è un aspetto molto importante. Io credo che noi dovremmo integrare la nostra economia anche attraverso la possibilità di accedere a fonti finanziarie di questo tipo.
Insomma, io non credo sia opportuno andare oltre in questo dibattito. Credo di poter dire una cosa, che spero che il Parlamento italiano questa volta, e così dovrebbe essere, non dovrebbero esserci ragioni, faccia passare questa legge, perché quando questa legge sarà ordinamento della Regione davvero noi avremo fatto un passo avanti, non solo per la comunità che rappresentiamo, ma ci saremo davvero inseriti in un processo di crescita complessiva italiana ed europea e avremo davvero dato una risposta, forse tra le cose che abbiamo fatto in questa legislatura la cosa più importante. Apparentemente può non sembrare così, ma in realtà io credo che questa legge nel futuro farà sentire fortissimamente i suoi effetti. Io devo dare atto al collega Scano non solo dell'obiettività politica quando ha affermato, e io sono d'accordo con lui, che se oggi arriviamo alla definizione di questa legge bisogna riconoscere l'impegno di alcuni partiti politici, che anche con grande difficoltà, con scarsezza di mezzi, ma con molta convinzione hanno portato avanti questa grande battaglia in tutti questi anni.
Ma la vittoria più grande è quella d'essere riusciti a far entrare nel patrimonio del linguaggio politico, ma nel patrimonio ideale di alcune forze politiche, alle quali non appartenevano né il problema della lingua, né altri. Ebbene, questi elementi sono entrati a far parte di quel patrimonio politico, in modo particolare di una certa parte della sinistra, e del partito più grande della sinistra, del PDS, e credo che anche questo possa essere annoverato tra le grandi vittorie politiche che il Partito Sardo d'Azione ha potuto conseguire in questi anni, perché siamo consapevoli che da soli forse non saremmo mai riusciti a realizzare cose come la legge per la lingua sardi. Siamo riusciti perché altri partiti, ma devo dire anche partiti cattolici, il Partito popolare e altri, i partiti che appartengono a questa coalizione, ma devo riconoscere anche nell'opposizione, Forza Italia nel dibattito ha dato un contributo notevole perché si possa arrivare a una definizione di questa legge in modo positivo, mi auguro, ripeto legge che darà lustro al Consiglio regionale. Voglio anch'io ringraziare, come hanno fatto altri, la Commissione, le varie commissioni che si sono occupate di questa legge, commissioni sulla cultura, questa attuale, ma anche quella che c'era prima, il presidente Zucca, col quale ho lavorato per parecchio tempo, che si è impegnato assieme a tutti i commissari che lui presiedeva in modo notevole e con grande convinzione perché questa legge arrivasse dove sta arrivando, e devo dire anche il presidente Petrini che ha ereditato che ha ereditato questo duro lavoro e che l'ha portato avanti con altrettanta determinazione, e il Consiglio regionale tutto.
Io davvero credo che questo atto politico, la definizione di questa legge sarà una cosa della quale tutti potremo andare orgogliosi. Anche Alleanza Nazionale che ha portato argomentazioni devo dire in qualche modo di contrapposizione ma anche di apertura. Io ho sentito l'intervento che ha fatto Masala, che diceva: se fossi sicuro che queste argomentazioni non vengono utilizzate per ragioni di tipo ideologico, per incrementare divisioni, per cercare separazioni che non vogliamo, io voterei a favore. Io la voglio tranquillizzare caro collega onorevole Masala: non c'è credo nessuno in quest'aula, ma credo neanche fuori di quest'aula, che pensa ancora che una legge come questa possa essere utilizzata per dividere la Sardegna, ma da che cosa? Da che cosa si deve dividere la Sardegna? La Sardegna non si può dividere, la Sardegna deve cercare di collegarsi, deve cercare ragioni di crescita, deve cercare di dare al mondo e di prendere dal mondo per diventare diversa da quello che è stata, deve cercare di unirsi al proprio interno e qui ha ragione il collega Scano quando dice "questa legge è più una legge che cerca le ragioni dell'unità interna", forse questa è la definizione più giusta. I sardi si sono caratterizzata da sempre piuttosto per le divisioni, per la ricerca delle diversità, delle cose che dividevano al proprio interno. Qualcuno ricordava il costume, qualcuno ricordava la propria inflessione, non sono d'accordo con chi diceva che dalla Marmilla al paese di Arbus ci sono differenze, questo non è affatto vero, chi sa le cose sa che non è così; certo che però è spiccata nel popolo sardo la tendenza alla ricerca della diversità, dall'elemento che rende diversi dal paese vicino. E io credo che una legge come questa che stiamo facendo sia in grado di mettere in modo processi non forzati, non di tipo coatto, perché non solo le questioni che riguardano le diversità, le inflessioni diverse della lingua, i modi di parlare diversi in Sardegna, ma tutta una serie di elementi culturali che possono ricollegare, amalgamare tutte le questioni che hanno diviso i sardi per fare dei sardi un vero popolo, un popolo che si deve confrontare col resto del mondo, perché noi abbiamo bisogno di crescere. Quando non si cresce culturalmente non si cresce dal punto di vista economico, noi dobbiamo smetterla di essere un popolo diviso, cercare le ragioni dell'unità perché assieme, tutti assieme abbiamo da fare le battaglie di rilancio della Sardegna e del popolo sardo. Allora anche io, proprio in chiusura mi permetto di chiedere ai colleghi di Alleanza Nazionale che hanno presentato un numero piuttosto elevato di emendamenti, se non ritengono che parte di quegli emendamenti possono essere superati, c'è bisogno di un confronto e non credo che stasera chiuderemo, si chiuderà domani, c'è bisogno di un confronto con la Giunta o fra le altre forze politiche, e io credo che questo si possa fare per cercare di arrivare ad una legge che non sia ancora una volta il frutto di divisioni, ma semmai il frutto di un lavoro di convergenza, di un lavoro che ci porta a una legge che tutti condividiamo e che possa avere poi, nel futuro, anche gambe per camminare, la forza, la spinta perché nessuna legge da sola, se poi non c'è la volontà di applicarla, se non ci sono le risorse, se non c'è una visione degli obiettivi che si possono raggiungere, nessuna legge può risolvere nessun tipo di problema. Noi possiamo non essere d'accordo con le questioni più rilevanti che si sono sollevate in questo dibattito, come in altri, possiamo condividere molte cose, ma se c'è alla base una sorta di sfiducia, una sorta di riserva per ciò che riguarda il futuro, l'esito dei risultati che questa legge si prefigge io credo che tutto sia destinato ad un fallimento. Grazie.
PRESIDENTE. Poiché è emersa la necessità, alla luce dei numerosi emendamenti pervenuti, di una pausa perché questi emendamenti possano essere esaminati sia dalla Commissione che dalle varie parti politiche, aggiorno la seduta a domani mattina alle ore 10.
La seduta è tolta alle ore 18 e 33.