CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA
XIV LEGISLATURA

TESTO UNIFICATO N. 343-354(parte I)/A


Norme in materia di enti locali
 

Approvato dalla Prima Commissione nella seduta del 15 febbraio 2012

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RELAZIONE DELLA COMMISSIONE AUTONOMIA - ORDINAMENTO REGIONALE - RAPPORTI CON LO STATO - RIFORMA DELLO STATO - ENTI LOCALI - ORGANIZZAZIONE REGIONALE DEGLI ENTI E DEL PERSONALE - POLIZIA LOCALE E RURALE - PARTECIPAZIONE POPOLARE

composta dai consiglieri

MANINCHEDDA, Presidente - COCCO Pietro, Vice Presidente - MELONI Francesco, Segretario - AGUS, Segretario - CAMPUS - CAPELLI, relatore - CONTU Mariano Ignazio - CUCCUREDDU - GRECO - PITEA - SORU - STERI - TOCCO

pervenuta il 16 febbraio 2012

La Prima Commissione nella seduta del 30 gennaio 2012 ha iniziato l'esame del disegno di legge n. 343 e della proposta di legge n. 354 e ha stabilito di procedere all'esame congiunto dei due testi. Nella seduta successiva (31 gennaio 2012) la Commissione ha stabilito di stralciare la parte della proposta di legge n. 354 relativa alle province (l'articolo 2 e, in parte, l'articolo 3) e ha completato l'esame degli articoli, sospendendo la votazione finale del testo in attesa del parere del Consiglio delle autonomie locali, secondo quanto previsto dall'articolo 9 della legge regionale n. 1 del 2005. Pervenuto il parere (seduta del 14 febbraio 2012), la Commissione ha licenziato il testo unificato nella seduta del 15 febbraio 2012.

Il testo licenziato dalla Commissione (Norme in materia di enti locali) è composto da tre articoli e, in attesa dell'approvazione di una organica legislazione regionale sull'ordinamento degli enti locali, detta una disciplina che risponde, principalmente, all'esigenza di garantire il contenimento della spesa e una maggiore efficienza dell'attività amministrativa, in coerenza con le recenti riforme statali.

L'articolo 1, nell'ambito della competenza primaria attribuita alla Regione autonoma della Sardegna dall'articolo 3, comma 1, lettera b) dello Statuto speciale, introduce una nuova disciplina sulla composizione dei consigli e delle giunte comunali. La nuova disciplina è dettata al fine di adeguare la normativa regionale ai principi della legislazione statale, già in vigore dal 2009, che prevede il ridimensionamento della composizione degli organi di governo degli enti locali nell'ottica della riduzione dei costi. La disposizione regionale garantisce un'adeguata rappresentanza anche ai comuni più piccoli e, a differenza di quanto disposto dalla disciplina statale, prevede la presenza degli assessori anche nei comuni fino a 1.000 abitanti.

L'articolo 2, anch'esso dettato nell'esercizio della competenza esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali, prevede l'applicazione, con deroghe, dell'articolo 16 del decreto legge n. 138 del 2011, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148 che dispone l'obbligo per i comuni fino a 1.000 abitanti dell'esercizio associato delle funzioni amministrative tramite unioni di comuni e dell'articolo 14 del decreto legge n. 78 del 2010, convertito nella legge 30 luglio 2010, n. 122, che, al fine di assicurare il coordinamento della finanza pubblica, dispone l'obbligo per i comuni fino a 5.000 abitanti di esercitare in forma associata le funzioni amministrative fondamentali, tramite convenzioni o unioni di comuni. La scelta della Commissione, in linea con quanto previsto dal testo proposto dalla Giunta regionale, é stata quella di adattare la riforma statale alla disciplina regionale sulla gestione associata delle funzioni amministrative per ambiti ottimali, già in vigore dal 2005 (legge regionale n. 12) e, dunque, anticipatrice rispetto a quella nazionale.

La Commissione, in coerenza con la scelta di valorizzare anche i comuni con popolazione inferiore a 1.000 abitanti, garantendo loro una certa rappresentanza nei consigli e la presenza degli assessori, ha fatto proprio il dettato proposto dalla Giunta, prevedendo anche per tali enti l'esercizio associato delle sole funzioni fondamentali e mantenendo in capo ai medesimi le restanti funzioni. Conseguentemente la disposizione contenuta nell'articolo 2, nel testo licenziato dalla Commissione, prevede che, con cadenze progressive e, comunque entro l'anno 2013, tutti i comuni fino a 5.000 abitanti (e quelli fino a 3.000 appartenenti o appartenuti a comunità montane) esercitino in forma associata le sei funzioni fondamentali elencate nell'articolo 21, comma 3, della legge n. 42 del 2009, secondo le modalità, ormai in via di consolidamento, previste dalla legge regionale n. 12 del 2005 (unioni di comuni, comunità montane, convenzioni).

L'articolo 3 istituisce la centrale unica di committenza in ambito regionale. La disposizione mira a favorire l'ottimizzazione delle risorse, la celerità delle procedure e il contrasto della criminalità.

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PARERE DEL CONSIGLIO DELLE AUTONOMIE LOCALI

pervenuto il 14 febbraio 2012

Premessa

Esprimere un parere sul testo unificato approvato dalla Prima Commissione in Consiglio regionale recante "Norme transitorie e urgenti in materia di composizione degli organi degli enti locali della Sardegna", implica la necessità di una preventiva analisi, sebbene sommaria, del contesto normativo entro il quale tale testo si colloca.

Stato e anche Regione da tanti anni sostengono la necessità di procedere ad un'organica e complessiva riforma del sistema delle autonomie locali, senza riuscire però a raggiungere tale obiettivo e, quindi, dinanzi alle esigenze poste dalla società ancor più in un periodo di grave crisi quale quella che stiamo vivendo, senza riuscire a fornire le risposte più idonee ai bisogni dei cittadini. Anche tale considerazione attesta, purtroppo, una grave crisi del sistema politico, nazionale e regionale, incapace di superare quella stasi e quei limiti ormai intrinseci che contribuiscono ad accentuare le difficoltà del sistema Italia e di quello sardo.

Lo Stato ha esaurito la spinta riformatrice successiva alla legge n. 142 del 1990 ed alla legge n. 267 del 2000 che si pensava potesse continuare all'indomani della riforma del titolo V della Costituzione nel 2001, svolta epocale grazie alla quale comuni e province non sono più mere ripartizioni territoriali, ma assurgono al ruolo di enti costitutivi della Repubblica, pari ordinati e di pari dignità costituzionale al pari di Regioni e Stato.

Infatti ci si attendeva il superamento delle deleterie forme di centralismi e burocratismi e una stagione nella quale le autonomie comunali e provinciali avrebbero esplicato un ruolo di motore propulsore per lo sviluppo del paese; invece, si è dato luogo ad una serie di provvedimenti estemporanei frutto dell'emergenza del momento e degli umori e convincimenti dei governi di turno, totalmente slegati da una logica veramente strategica e riformatrice, i quali hanno avuto l'effetto di mortificare comuni e province e di impedire al paese di organizzarsi se non per vincere almeno per attenuare una crisi ormai dilagante, ma anche di contraddire e violare la Carta costituzionale aggiungendo ulteriore confusione ad una situazione che era già di per se necessitante di una profonda e articolata riforma del sistema delle autonomie locali.

Gli ultimi provvedimenti assunti dallo Stato alla fine del 2011 con il decreto legge n. 138 e la legge n. 148 hanno riaffermato obsolete forme di accentramento e sancito la superiorità dello Stato e delle regioni, relegando comuni e province a meri destinatari di provvedimenti che gravemente introducono modifiche ordinamentali incidenti direttamente sul ruolo costituzionale dei comuni, stante che tale nuova normativa determina soprattutto che:
- quelli con meno di 1.000 abitanti vengono obbligati all'esercizio di tutte le funzioni e servizi in forma associata;
- istituisce e prevede la composizione di nuovi organi in una nuova forma di associazione obbligatoria denominata "Unione";
- innova la composizione degli organi dei comuni con previsioni che incidono sulla loro autonomia organizzativa.

Tutte queste novità hanno chiara rilevanza costituzionale e diverse risultano le violazioni degli articoli della Costituzione.

Articoli 72 e 77: la procedura seguita per emanare il decreto legge n. 138 e poi la legge di conversione n. 148 è viziata poiché carente delle motivazioni della necessità ed urgenza, le quali non si appalesano nel caso in questione in quanto la nuova normativa si prefigge degli obiettivi che non è in grado di perseguire nei tempi brevi che sempre si presuppongono quando si attiva tale procedura costituzionale. Infatti la normativa di cui trattasi si prefigge di assicurare il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, contenere le spese degli enti territoriali e un migliore svolgimento delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici; ma essa non si concretizza in un reale contenimento della finanza pubblica, stante che addirittura non vengono neppure quantificati i risparmi di spesa i quali paiono incerti, eventuali e non evidenti nell'immediatezza, così come l'obiettivo di una migliore efficacia ed efficienza nell'attività amministrativa che, caso mai, viene a determinare oneri maggiori e immediati a carico delle amministrazioni coinvolte. Oltretutto, anche il principio di leale cooperazione che in materia di enti territoriali risulta essere un vero e proprio baluardo insuperabile è stato palesemente violato da una procedura non giustificata da urgenza e necessità.

Articoli 114 e 118: i due articoli risultano violati perché, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, non è più la legge generale dello Stato che determina le funzioni dei comuni e delle province, ma è la cornice costituzionale a regolare i rapporti ed a definire gli ambiti dei poteri e delle funzioni di ogni soggetto costitutivo della Repubblica e nei rapporti con gli altri. Né lo Stato, né la Regione possono levare titolarità di funzioni e servizi al comune e obbligare all'associazionismo in un ente (l'Unione) che coopta ogni funzione-servizio, né tantomeno si possono introdurre delle differenze tra comuni classificati in base a classi demografiche, alcune delle quali destinatarie di provvedimenti destinati a modificare nel profondo l'ente comune incluso in certe classi rispetto agli altri. È anticostituzionale creare queste differenze perché il principio di uguaglianza sancito dall'articolo 114 deve applicarsi non solo tra i soggetti costitutivi della Repubblica, ma, a maggior ragione, tra soggetti appartenenti alla stessa categoria di enti.

I due articoli assegnano, altresì, ogni funzione amministrativa ai comuni. È chiaro che la legge statale può per le funzioni fondamentali imporre forme di associazionismo e può determinare a chi spetta l'attività amministrativa, ma assolutamente non può imporre ciò per le funzioni proprie dei comuni per le quali vale la loro autonomia organizzativa e per quelle assegnate da leggi regionali per le quali dettano norme le regioni.

Articolo 119: si sottolinea I'anticostituzionalità del provvedimento statale perché i comuni perdono non solo funzioni e servizi, ma anche il loro patrimonio fatto di risorse umane e strutturali.

Articoli 3 e 97: anche il principio di ragionevolezza e buon andamento dell'amministrazione è leso dalla nuova normativa avendo questa evidenti riflessi sui principi costituzionali e atteso che non risulta in grado di perseguire le finalità di migliorare lo svolgimento delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici. Peraltro, anche le due modalità gestionali delle funzioni in forma associata (Unione e Convenzione) risultano essere completamente diverse tra loro essendo affidate la prima ad un ente con personalità giuridica, la seconda ad uno strumento giuridico con modalità flessibili, temporanee e variabili nel tempo.

Articolo 133: il provvedimento del Governo di fatto crea un nuovo livello di governo non contemplato dalla Costituzione, obbligatorio e sostitutivo di quelli previsti dall'articolo 114, modificando la circoscrizione dei comuni e istituendo un ente, l'Unione, che gli si sostituisce, senza rispettare l'iter costituzionale ed obbligatorio contemplato dall'articolo 133 (referendum, legge regionale, ecc.).

CONSIDERAZIONI

NORME IN MATERIA DI ENTI LOCALI.

Il testo si compone di 3 articoli in esecuzione dell'articolo 3 dello Statuto speciale che consente alla Regione di avere competenza primaria in materia di ordinamento degli enti locali.

Nell'articolo 1 si affronta la composizione dei consigli comunali e delle giunte comunali.

I consigli comunali scendono da 40 a 32 per i comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti; da 30 a 24 membri per i comuni con popolazione superiore ai 25.000 abitanti; da 20 a 16 membri per i comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti; da 16 a 12 membri per i comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti; da 12 a 10 membri per i comuni con popolazione superiore ai 1.000 abitanti; da 12 a 8 membri per i comuni con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti.

La riduzione, frutto più di un'esigenza "mediatica" che per un effettivo risparmio dei cosiddetti "costi della politica", è richiesta ed attuata ai livelli più bassi (e meno remunerati) del sistema istituzionale.

Un'esigenza alla quale gli enti locali della Sardegna non vogliono sottrarsi e non si sottrarranno. Un taglio che viene decretato da un livello istituzionale, quello regionale, che continua a mantenere inalterati costi e numeri. Un livello regionale che non pone in discussione né la sua forma né la sua sostanza, una forma e una sostanza che non si esplicita solo a livello di rappresentanza politica, ma anche e soprattutto, a livello di apparati burocratici e alla tendenza, sempre più marcata, di accentramento.

Un accentramento regionale che è tanto più incomprensibile in una Regione a statuto speciale che lamenta, in secula seculorum, la burocrazia statale e il mancato rispetto degli accordi con lo Stato.

Un accentramento regionale che dimentica il principio costituzionale della sussidiarietà e avoca a se prerogative e funzioni che in comunità evolute sono totalmente delegate agli organismi comunali.

Per quanto concerne la riduzione delle giunte, bracci operativi dell'amministrazione, esse non possono essere di numero superiore a un quarto, arrotondato, del numero di consiglieri comunali computando a tal fine anche il sindaco.

La Commissione corregge un vulnus dettato dalla norma nazionale che non consentiva ai comuni con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti di avere un esecutivo, ma delegava al sindaco - novello podestà o borgomastro - tutte le competenze di un organo collegiale.

Il Consiglio delle autonomie locali chiede al Consiglio regionale che la previsione per la composizione delle giunte sia demandata agli statuti comunali a parità di costi rispetto alle previsioni di questa proposta di legge, in modo da garantire la funzionalità degli organismi collegiali e le giuste aspirazioni sul contenimento della spesa degli apparati politici comunali.

Altresì il Consiglio regionale dovrebbe valutare l'ipotesi che la composizione dei consigli comunali dei comuni con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti sia ridotta da 12 a 10 in luogo dell'attuale previsione da 12 a 8.

Nell'articolo 2 (Razionalizzazione dell'esercizio delle funzioni comunali) si comprende che la normativa in questione sarebbe parte di una più complessa riforma del sistema delle autonomie locali della Sardegna secondo quanto previsto dall'articolo 10 della legge regionale n. 2 del 2007.

In Sardegna è dal 2007 che si parla di una riforma organica del sistema locale senza aver prodotto, tuttavia, lo straccio di mezza riforma (a cavallo di due legislature) a dimostrazione della mancanza di una visione strategica dell'insieme della classe politica regionale intrappolata in una visione di palazzo e neocentralista dei rapporti istituzionali.

In questo articolo si dice che anche in Sardegna si applicano l'articolo 16 della legge n. 148 del 2011, ad esclusione dei commi dall'1 al 18 e dei commi 22, 23, 24 e 29, e la legge regionale n. 12 del 2005 (Norme in materia di unioni dei comuni e comunità montane). Ma il vero nocciolo del problema si affronta al comma 3 del presente articolo.

Innanzitutto viene confermata "l'obbligatorietà" dello svolgimento in forma associata delle funzioni "mediante le unioni dei comuni e le comunità montane" per tutti i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti o fino a 3.000 per i comuni che fanno parte o hanno fatto parte di comunità montane costituite ai sensi della legge regionale n. 12 del 2005, oppure attraverso le convenzioni di cui all'articolo 30 del decreto legislativo n. 267 del 2000 entro il 31 dicembre 2012 con riguardo a due funzioni fondamentali ed entro il 31 dicembre 2013 per tutte le funzioni fondamentali.

Le funzioni fondamentali riguardano:
a) polizia locale;
b) funzioni di amministrazione e controllo;
c) pubblica istruzione;
d) servizi sociali;
e) ambiente e territorio;
f) viabilità e trasporti.

Nel concetto di "obbligatorietà" si annida il vulnus della norma proposta dalla Commissione. Non si sta insieme per svolgere meglio funzioni, o porzioni di esse, per i cittadini garantendo il miglioramento qualitativo dei servizi, ma rispondendo a un obbligo che svilisce il senso stesso dell'autonomia comunale.

Il sistema locale privilegia un sistema che non si fonda sull'obbligo, ma sulla scelta. Una scelta che si deve basare sul meccanismo incentivo/disincentivo.

Premio per le aggregazioni comunali che svolgono un numero maggiore di funzioni e una punizione per coloro che non svolgono nessuna funzione in forma associata.

Tale meccanismo è implicitamente escluso dal comma 5 dell'articolo 3 laddove si dice che dalle applicazioni delle norme non derivano maggiori oneri a carico della finanza regionale.

Tale previsione normativa si pone in netto contrasto, contraddicendo invero le premesse della presente norma, con l'articolo 12 della legge regionale n. 12 del 2005 che prevedeva la costituzione di un apposito fondo per le unioni di comuni e le comunità montane.

Un fondo che era così ripartito:
a) per il 5 per cento in parti uguali fra tutte le forme associative costituite nei tre anni precedenti quello di erogazione dei fondi;
b) per il 10 per cento in base alla popolazione residente nei comuni aderenti;
c) per il 10 per cento in base alla estensione, calcolata sommando le superfici del territorio dei comuni aderenti;
d) per il 15 per cento in base al numero dei comuni aderenti;
e) per il 50 per cento in base alle funzioni esercitate, in modo da premiare le forme di gestione associata che esercitano il maggior numero di funzioni;
f) per il 10 per cento fra le forme associative di nuova istituzione per contributi una tantum di avvio; le disponibilità residue per carenza di nuove istituzioni si sommano a quelle della lettera e) e vengono ripartite coi medesimi criteri.

Gli enti locali della Sardegna chiedono, semplicemente, il rispetto di tale norma che garantisce la funzionalità delle forme aggregative degli enti locali, ne garantisce l'autonomia e, al contempo, agisce in profondità sullo svolgimento delle funzioni associate; oltre al finanziamento della seconda parte della legge regionale n. 12 del 2005 che prevedeva tutta una serie di agevolazioni, dagli impianti sportivi ai trasporti, dalle scuole alle produzioni locali, dai piani di insediamento produttivi alle infrastrutture comunali, dai musei ai centri storici che non hanno mai visto applicazione benché la legge sia in vigore dal 2005.

Pertanto il comma 5 dell'articolo 2 della presente proposta è in palese contrasto con quanto previsto all'articolo 12 e successivi della legge regionale n. 12 del 2005.

Un altro aspetto che la norma non chiarisce è il seguente: per come è scritto l'articolato non si capisce se detta norma incide su organismi sovracomunali previsti da altre norme regionali come ad esempio i PLUS previsti dalla legge regionale n. 23 del 2005 o per i bacini della rete di distribuzione del gas. Parrebbe che anche detti organismi debbano essere smembrati, se è vero come è vero che fra le funzioni fondamentali obbligatoriamente demandate alle unioni o alle comunità montane ci sono pure quelle relative ai servizi sociali e all'ambiente e al territorio.

Come detto in precedenza, l'obbligatorietà dello svolgimento delle funzioni associate oltre a ledere il principio dell'autonomia dei comuni lede, gravemente, il principio democratico e della rappresentanza.

I sindaci, le giunte e i consigli comunali sono espressione della volontà popolare che si esercita in maniera democratica su un determinato territorio.

Gli eletti pertanto sono espressione della volontà popolare e talvolta sono riconducibili, soprattutto nelle realtà più piccole, ad aggregazioni "civiche" o anche ad aggregazioni politiche se non partitiche.

Avendo l'obbligo di esercitare congiuntamente tutte le sei funzioni fondamentali significa che, nelle diverse forme stabilite dalle leggi, tutti i fondi di tutti i comuni (personale compreso) saranno soggetti ad un organismo sovracomunale (unione e comunità montana).

Le unioni dei comuni e le comunità montane, benché nate con l'intento precipuo di gestire servizi, non sono per nulla affrancate dalle appartenenze politiche di schieramento se non di partito e, non di rado, all'interno di dette aggregazioni si formano maggioranze e minoranze.

Se l'esercizio delle funzioni fosse reso obbligatorio, così come vuole la norma nazionale e così come pedissequamente mutuato dalla norma regionale, si verificherebbe il caso di cittadini amministrati da eletti da altre popolazioni.

Il sindaco (o i sindaci) che per le più svariate ragioni si trovassero in una posizione di minoranza all'interno delle unioni dei comuni (o delle comunità montane) non avrebbero nessun potere nell'amministrare il territorio e la comunità che ha concorso ad eleggerlo.

Il Consiglio regionale dovrebbe capire che con la democrazia non si può né si deve giocare. La democrazia è una cosa nobile che deve trovare sempre applicazione nelle norme in ragione dei dettati costituzionali.

Nell'articolo 3 (Centrale unica di committenza) si posticipano solamente i tempi di attuazione della previsione normativa nazionale (31 dicembre 2012) prevedendo al comma 2 una "odiosa" centralizzazione regionale attraverso convenzioni che gli enti locali dovrebbero stipulare con l'Amministrazione regionale.

Conclusioni:

Le conclusioni sono abbastanza banali viste le considerazioni sviluppate.

Da un lato si mantengono gli organi comunali (sindaco, giunta, consiglio) anche per i comuni con popolazione inferiore ai 1.000 abitanti, ma il potere di tali organi è completamente depotenziato dall'obbligatorietà di svolgimento di tutte le funzioni fondamentali.

Organismi pletorici che servono, sostanzialmente, a ratificare decisioni prese altrove da una forma aggregativa nella quale ci si potrebbe ritrovare in una posizione di debolezza e/o di minoranza.

Paradossalmente la norma aggrava la normativa nazionale estendendola a tutti i comuni anche a quelli con popolazione compresa fra 1.000 e 5.000 abitanti.

Uno svilimento democratico che produrrebbe ed acuirebbe contrasti di campanili o, al contrario, un appiattimento del dibattito pubblico nel quale le differenze sono livellate per garantire qualche risultato alla comunità amministrata.

Uno svilimento democratico che determina anche l'annullamento dell'autonomia comunale, ma non la compensa né con incentivazioni né con un conseguente miglioramento dei servizi al cittadino.

Gli enti locali della Sardegna chiedono che democrazia ed autonomia siano garantiti a tutti i livelli e che tale garanzia sia di fondamentale importanza per la tenuta sociale ed economica di tutte le comunità locali e del complesso della comunità regionale.

Altresì si chiede la completa applicazione della legge regionale n. 12 del 2005 che garantisce davvero uno svolgimento ordinato delle funzioni in forma associata e il mantenimento dell'autonomia comunale e delle realtà locali. Un modello che può e deve essere difeso, senza scopiazzamenti deteriori della normativa nazionale, dal Consiglio regionale che deve tenere ferme le prerogative stabilite dallo Statuto di autonomia e dalla Costituzione.

A parere del Consiglio delle autonomie locali della Sardegna occorre che il Consiglio regionale della Sardegna ribalti completamente l'angolo di visuale con il quale si guarda alle autonomie locali.

Non è più tempo di mantenere una obsoleta visione centralista (nel mentre che si condanna il centralismo dello Stato) basata sul mantenimento di funzioni e risorse in capo ad un elefantiaco apparato burocratico che sta paralizzando la Sardegna e su una giungla di norme di ogni tipo di difficilissima e dubbia interpretazione.

Non è più tempo di affrontare le emergenze dell'isola e le crisi in atto con provvedimenti estemporanei frutto dell'emergenza del momento, della sensibilità di un consigliere o di un assessore, della pressione mediatica o espressa da una categoria anziché da un altra tendente a tutelare interessi legittimi e giustificati, ma che non possono superare quelli più generali e complessivi del popolo sardo.

È evidente, come il taglio degli sprechi, l'ottimizzazione della spesa pubblica, il miglioramento dell'efficacia e dell'efficienza nella pubblica amministrazione, sono obiettivi cari ai comuni che si intendono con forza perseguire in modo sinergico con la Regione e lo Stato perché si vuole contribuire davvero a frenare la crisi e riavviare uno sviluppo alla portata dei sardi.

In tale logica, contestualmente agli interventi strategici per lo sviluppo, a quelli diretti sulla Regione ormai indifferibili, si ritiene che si debba procedere ad una profonda rivisitazione del sistema delle autonomie locali in Sardegna che certamente preveda: la gestione associata delle funzioni e dei servizi pubblici, ma in una prospettiva di scelta e non di obbligo; di premialità e di penalità; di garanzia per la rappresentanza democratica dei comuni; di attribuzione del ruolo di propulsore dello sviluppo locale anche alle unioni dei comuni (e non solo alle comunità montane); di risposta alla necessità di superare gli assurdi limiti statali per il personale senza il quale nessuna unione potrà mai funzionare così come auspicato.

Tutto ciò considerato il Consiglio delle autonomie locali della Sardegna, all'unanimità, auspicando una riforma complessiva, ragionata e partecipata dagli attori locali, della legislazione in materia di enti locali in applicazione dell'articolo 3 dello Statuto di autonomia e delle previsioni di cui alla legge regionale n. 2 del 2007, articolo 10, comma 5, esprime parere NEGATIVO sul presente disegno di legge che lede l'autonomia democratica, statutaria, organizzativa degli organismi comunali.

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TESTO DELLA COMMISSIONE

Titolo: Norme in materia di enti locali.

Art. 1
Composizione dei consigli comunali e
delle giunte comunali

1. Nei comuni della Sardegna il consiglio comunale è composto dal sindaco e:
a) da 32 membri nei comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti;
b) da 24 membri nei comuni con popolazione superiore a 25.000 abitanti;
c) da 16 membri nei comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti;
d) da 12 membri nei comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti;
e) da 10 membri nei comuni con popolazione superiore a 1.000 abitanti;
f) da 8 membri nei comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti.

2. Nei comuni della Sardegna il numero degli assessori comunali non deve essere superiore a un quarto, arrotondato aritmeticamente, del numero dei consiglieri comunali, computando a tale fine il sindaco.

3. Le disposizioni di cui al presente articolo sono efficaci dal turno elettorale per il rinnovo dei consigli comunali successivo all'entrata in vigore della presente legge.

4. L'articolo 10 della legge regionale 1° luglio 2002, n. 10 (Adempimenti conseguenti alla istituzione di nuove province, norme sugli amministratori locali e modifiche alla legge regionale 2 gennaio 1997, n. 4), è abrogato; al comma 3 dell'articolo 1 della legge regionale 18 marzo 2011, n. 10 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali) le parole "comunale e", ovunque ricorrono, e le parole "il sindaco e" sono abrogate.

 

Art. 2
Razionalizzazione dell'esercizio
delle funzioni comunali

1. Nelle more dell'approvazione di una disciplina organica regionale dell'ordinamento degli enti locali di cui all'articolo 10, comma 5, della legge regionale 29 maggio 2007, n. 2 (legge finanziaria 2007), e successive modifiche ed integrazioni, negli enti locali della Sardegna si applicano l'articolo 16 del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Delega al Governo per la riorganizzazione della distribuzione sul territorio degli uffici giudiziari), con esclusione delle di-sposizioni dal comma 1 al comma 18 e dei commi 22, 23, 24 e 29, la legge regionale 2 agosto 2005, n. 12 (Norme per le unioni di comuni e le comunità montane. Ambiti adeguati per l'esercizio associato di funzioni. Misure di sostegno per i piccoli comuni), e la disciplina di cui alla presente legge.

2. Le funzioni attribuite al prefetto dall'articolo 16, comma 28, del decreto legge n. 138 del 2011 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, sono esercitate dalla Regione.

3. Le funzioni fondamentali di cui all'articolo 21, comma 3, della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell'articolo 119 della Costituzione), nei comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 per i comuni appartenenti o che siano appartenuti a comunità montane, sono obbligatoriamente esercitate in forma associata mediante le unioni di comuni e le comunità montane costituite ai sensi della legge regionale n. 12 del 2005 o attraverso la convenzione di cui all'articolo 30 del decreto legislativo n. 267 del 2000, entro il 31 dicembre 2012 con riguardo a due funzioni, entro il 31 dicembre 2013 con riguardo a tutte le sei funzioni fondamentali. La disposizione di cui al presente comma si applica a tutti i comuni, compresi quelli facenti parte di unioni o comunità montane già costituite alla data di entrata in vigore della presente legge. Il limite demografico minimo che l'insieme dei comuni tenuti all'esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali deve raggiungere è fissato di norma in 5.000 abitanti; tale limite demografico non si applica qualora il numero dei comuni coinvolti nella gestione associata sia pari o superiore a cinque e la relativa popolazione sia di almeno 3.000 abitanti.

4. I comuni non possono svolgere singolarmente le funzioni fondamentali svolte in forma associata. La medesima funzione non può essere svolta da più di una forma associativa.

5. Dall'applicazione delle disposizioni del presente articolo non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza regionale.

 

Art. 3
Centrale unica di committenza

1. Negli enti locali della Sardegna l'articolo 33, comma 3 bis, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), si applica alle gare bandite successivamente alla data del 31 dicembre 2012.

2. A tal fine gli enti locali possono utilizzare le convenzioni quadro stipulate dalla Regione, ovvero avvalersi della piattaforma telematica della medesima per la gestione di procedure di gara aggregate, previo convenzionamento con l'Amministrazione regionale.