Seduta n.190 del 17/03/2011 

CXC SEDUTA

(Seduta solenne)

Giovedì 17 marzo 2011

Presidenza della Presidente LOMBARDO

indi

del Vicepresidente CUCCA

La seduta è aperta alle ore 9 e 34.

MARIANI, Segretario, dà lettura del processo verbale della seduta pomeridiana del 1° febbraio 2011 (183), che è approvato.

Comunicazioni del Presidente

PRESIDENTE. Do lettura del messaggio che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci ha fatto pervenire in occasione del centocinquantennale dell'Unità d'Italia:

"Sono lieto di rivolgere a Voi il mio più cordiale saluto in occasione delle iniziative organizzate per celebrare il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, momento ideale per richiamare alla memoria dei cittadini, delle forze politiche e dei responsabili delle Istituzioni regionali e locali, gli eventi fondamentali che hanno condotto alla nascita del nostro Stato unitario, e per rafforzare la consapevolezza delle responsabilità nazionali che ci accomunano.

La nascita dello Stato unitario ha consentito al nostro Paese di compiere un decisivo avanzamento storico, di consolidare l'amore di Patria, di porre fine a una fatale frammentazione, di riconoscerci in un ordinamento liberale e democratico, forte dell'esperienza della lotta antifascista. L'alto dibattito in seno all'Assemblea Costituente ha portato a identificare ideali e valori da porre a base dell'ordinamento repubblicano. Nella Costituzione l'identità storica e culturale della Nazione convive con il riconoscimento e lo sviluppo in senso federalistico delle Autonomie, che la fanno più ricca e più viva, riaffermando l'unità e l'indivisibilità della Repubblica.

Mettendo a frutto le risorse e le potenzialità dei territori che rappresentate e portando avanti la riflessione sul contributo delle comunità regionali e locali al moto unitario contribuirete ad ancorarle in modo profondo e irreversibile al patto che ci lega, ai valori e alle regole della Costituzione repubblicana.

Certo che le celebrazioni corrisponderanno validamente a questi fini, vi ringrazio fin da ora per la vostra partecipazione ai comuni festeggiamenti e per l'importante contributo delle assemblee da voi presiedute.

Giorgio Napolitano - Roma, 17 marzo 2011".

Celebrazione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia

PRESIDENTE. Onorevole Presidente della Regione, colleghi, autorità tutte e cortesi ospiti, il Consiglio regionale, con l'odierna seduta solenne, ha inteso unirsi alle celebrazioni in corso in tutta la Repubblica per il Centocinquantenario della proclamazione del Regno d'Italia. Il 17 marzo del 1861 resterà nella memoria collettiva il punto di arrivo del movimento risorgimentale conclusosi con l'unificazione politica degli italiani. Si è così portato a compimento un percorso storico tutto italiano che, preso avvio nel 753 a.C. con la fondazione di Roma, ha unito le popolazioni della Penisola in una comunanza di territorio, usi, costumi e tradizioni.

In questo complesso di vicende storiche, l'Italia si è formata grazie al sacrificio e all'impegno delle sue donne e dei suoi uomini nel portare a compimento il grande sogno unitario del Risorgimento. La mente di questo lungimirante disegno politico fu indubbiamente il conte Camillo Benso di Cavour che seppe, con sapienza, tessere la tela dell'unificazione italiana sino alla proclamazione del Regno. Non da meno va ricordato che, sotto il profilo dottrinale, il Regno nacque per gemmazione dal Regno di Sardegna. Il Regno d'Italia era, infatti, la prosecuzione giuridica delle vicende legate allo Stato denominato Regno di Sardegna, nato a Cagliari, il 19 giugno del 1324, la cui Corona passò nel 1720 sotto i Savoia a seguito del Trattato di Londra. Prova ne sia che Vittorio Emanuele, primo Re d'Italia, mantenne la numerazione di "II" del Regno di Sardegna.

L'Italia, sino a quando la grande opera di unificazione, pensata dal Cavour, voluta da Vittorio Emanuele II e operata sul campo da Garibaldi, non fu portata a termine, era una grande entità geografica senza gli attributi della statualità. Era un sogno romantico di molti patrioti che, già dai primi moti degli inizi del 1800, e nel terremoto politico del 1848 che sconvolse l'Europa intera, prendeva forma sempre più intensamente attraverso la "perfetta fusione" che fece da preludio all'Unità. Era un fuoco che ardeva nei cuori di tutti quelli che, come Mazzini, pensavano e volevano costruire un futuro privo di dominazioni straniere nell'amato suolo italico, per riportare l'italianità umiliata agli antichi splendori di civiltà giuridica, genialità artistica, raffinatezza culturale e insuperata creatività nei mestieri che l'avevano resa celebre agli occhi del mondo. Era anche una terra profondamente cattolica che viveva il dramma dei suoi abitanti divisi fra una agognata unità che, passando attraverso Roma Capitale, avrebbe incrinato il legame millenario fra gli italiani e la Chiesa, e la loro sincera fede.

Edificare lo Stato unitario fu un capolavoro di diplomazia politica che, grazie alla innata propensione alla mediazione, per cui andiamo famosi nel mondo, seppe mirabilmente preservare il fervente cattolicesimo degli italiani coniugandolo col desiderio di unificazione nella indovinata formula: "libera Chiesa in libero Stato". Un legame indissolubile quello fra l'Italia e la "sua" Chiesa che, seppure incrinato dopo i primi freddi rapporti col neonato Regno d'Italia, in cui addirittura la Chiesa vietava ai cattolici di partecipare attivamente alla vita politica attraverso il monito delle gerarchie ecclesiastiche del non expedit, in seguito si poté faticosamente ricostruire.

Fu un percorso lungo quello che tratteggiò il recupero dei rapporti fra Stato italiano e Chiesa, culminato nei Patti Lateranensi del 1929 che sancirono ufficialmente la nascita dello Stato della Città del Vaticano. Patti poi revisionati nel 1984. Parallelamente si concretizzò una lenta ripresa dell'attivismo cattolico nella vita pubblica che al suo culmine portò gradualmente alla nascita del Partito Popolare e quindi della Democrazia Cristiana, epitomi dell'impegno politico dei cattolici italiani. Ma l'Italia restava il sogno comune, l'orizzonte condiviso di laici e cattolici che volevano costruire la Patria di tutti gli italiani fuori da qualsiasi influenza o dominazione straniera. Ne costituisce viva testimonianza il fatto che proprio attraverso le sofferenze dei tanti che si immolarono generosamente per lo Stato a lungo sospirato, ma anche attraverso i profondi travagli che scuotevano le coscienze di quanti divisi fra sentimento religioso e amor di patria, si forgiò la consapevolezza di appartenere a una storia comune, i cui nodi andavano riallacciati riunendo i destini di tutte le genti d'Italia.

Vi era in tutti la certezza che l'Italia geografica era nata per essere unita anche da una comunione statuale che ricongiungesse, sotto uno stesso ombrello ordinamentale, quelli che nell'inno nazionale si chiamarono fratelli. Una comunione di fratellanza da sancire con la nascita dello Stato unitario che ha visto l'Isola e i suoi figli partecipare alle più importanti e dolorose vicende che hanno accompagnato la storia italiana prima e dell'Unità dopo. Non a caso buona parte di quel rosso che nel tricolore ricorda il sangue speso per l'Unità d'Italia, è tinto anche dal sangue versato da numerose generazioni di sardi che, soprattutto con gli eroici fanti della Brigata Sassari, hanno scritto pagine indelebili e gloriose negli eventi bellici che si accompagnarono alla sacra difesa del suolo patrio. In questo momento non posso non ricordare anche i numerosi figli della Sardegna che in tempi recenti hanno continuato a dare la vita per la salvaguardia delle libere istituzioni. Quei reduci della Brigata Sassari, incarnati idealmente dalle due grandi figure di Emilio Lussu e Camillo Bellieni, una volta tornati a casa capirono il valore dell'unità dei sardi subliminata nel comune sentire che forma l'anima del nostro Popolo e la nostra cultura identitaria originale.

Nacque il pensiero sardista che rafforzò e nutrì la cultura autonomistica dell'Isola condensata nella "Questione Sarda", sollevata da pensatori illuminati i cui capofila furono Giovanni Battista Tuveri e Giorgio Asproni. L'Italia politica, con il completamento dei plebisciti per l'annessione, prima al Regno di Sardegna e poi al Regno d'Italia, cessò di essere uno Stato composto per divenire unitario. E se nel 1861 il proclamato Regno d'Italia non sancì i definitivi confini del Paese, in quanto l'opera si completò con l'annessione del Veneto nel 1865, di Roma nel decennio successivo e del Trentino Alto Adige dopo la prima guerra mondiale, diede però avvio alla vicenda umana e storica della nostra attuale Repubblica.

Tre guerre d'Indipendenza, due guerre mondiali, la caduta del fascismo, fecero da cornice al percorso storico che, nel giugno del 1946, segnò il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica e all'adozione della Costituzione che ancora oggi regola la vita degli italiani. La nascita delle istituzioni repubblicane nel 1946 non segnò solo la ripresa della vita democratica, ma anche il riconoscimento del suffragio universale e del voto alle donne. Un evento che colmò un ritardo storico verso il mondo femminile, in quanto vide finalmente riconosciuto alle donne italiane il diritto fondamentale di partecipare attivamente alla vita delle libere istituzioni. Ma fu anche una testimonianza vivida del ruolo non secondario e fondamentale delle donne in tutte le dinamiche che si accompagnarono alle vicende risorgimentali che portarono all'Unità d'Italia e in seguito alla nascita delle istituzioni repubblicane.

Gli anni dell'Assemblea Costituente segnarono il secondo Risorgimento contrassegnato dalla volontà di riscatto degli italiani dopo il dramma della guerra. Da questo clima di grande fermento politico, culturale e sociale, prese avvio con successo la costruzione di una società moderna e avanzata che ha portato l'Italia nel consesso economico degli Stati più industrializzati e ricchi. Furono anni di grandi agitazioni politiche e di temperie parlamentari, con estenuanti discussioni sulla forma della Repubblica, che poi ne uscì regionalista, e sui principi e gli indirizzi da inserire nella Carta costituzionale.

In tutti i Padri costituenti emerse forte la volontà di preservare il sentimento unitario del Risorgimento, fissandolo nella Costituzione con l'espressione "una e indivisibile", per tutelare la nascente democrazia repubblicana dalla fragilità che poteva derivarle dalle stesse cause che avevano determinato il collasso dello Stato nato unitario sotto l'egida della monarchia. Tuttavia, l'unità così faticosamente raggiunta, non poteva comunque costituire un impedimento all'auspicata, dai più, apertura verso il ruolo delle Regioni, mancata nel 1861 per la prematura scomparsa di Cavour, che avvenne attraverso il formale riconoscimento delle autonomie come parte integrante della nuova unità nazionale.

Questa attenzione verso il sistema delle autonomie, con l'adozione di un ordinamento regionalista, favorì una visione più rispettosa delle aspirazioni di alcune componenti identitarie ed etnolinguistiche che si formalizzò con il riconoscimento di uno speciale Statuto di autonomia per la Sardegna, la Sicilia, la Valle d'Aosta, il Trentino Alto Adige e, anni dopo, il Friuli. Una costante, la specialità, estrinsecata in quell'essere fieramente sardi e, contemporaneamente, sinceramente italiani che ha sempre contraddistinto la nostra leale partecipazione alla vita dello Stato.

Fatta la Repubblica, un nuovo orizzonte già si stagliava sul futuro degli italiani. Prese avvio negli anni cinquanta la discussione sulla creazione di una Comunità Economica Europea. Quella stessa Europa auspicata da pensatori illuminati come Mazzini, Cattaneo e il nostro Bellieni, che la volevano formata dall'unione dei popoli e delle nazioni che la compongono. Un processo di nascita e unificazione, quello dell'Europa plurinazionale, che si è mirabilmente e pacificamente costruito col consenso delle popolazioni degli Stati che la compongono. Una entità sovrastatuale che è entrata nel nostro vivere quotidiano, trasformando le nostre abitudini, modificando modelli comportamentali e aspirazioni, facendoci sentire partecipi di un grande progetto di unificazione del Continente europeo. Un sentire politico che avviò la creazione di una definita identità e solidarietà europea attraverso il riconoscimento delle diverse anime formate dalle culture dei popoli e delle Nazioni che la compongono.

L'Europa. E' questa la grande sfida del futuro prossimo che ci attende come sardi e italiani per erigere una grande Patria cementata dall'idem sentire di un collante unitario che fonda, sulla fratellanza, la solidarietà e la comunione di intenti, la spiritualità dell'anima europea. In un certo senso con le celebrazioni odierne festeggiamo anche il ruolo protagonista dell'Italia nel processo di unificazione europea.

Colleghe, colleghi, Autorità e cortesi ospiti, vorrei richiamare l'attenzione sul fatto che l'occasione di queste solenni celebrazioni non può e non deve esaurirsi solo nella formalità dei festeggiamenti. Essa stessa deve divenire un'ulteriore opportunità per una corale riflessione su quello che il Presidente della Repubblica ha indicato "come un esame di coscienza collettivo". Anche se questa non è la sede idonea per approfondire tematiche specifiche, non possiamo tuttavia negare che molti sono ancora i nodi da sciogliere e da superare dei tanti problemi che ancora sussistono dopo centocinquant'anni di Unità. Problematiche legate anche al differenziale di crescita dello sviluppo fra Nord e Sud, passando per le Isole, che tutt'ora permangono nel nostro Paese e pesano come macigni sul nostro futuro. Un futuro nei confronti del quale ci sentiamo tutti coinvolti e responsabilizzati per costruire una società migliore, più rispettosa dei diritti di tutti e solidale in tutte le sue componenti.

Oggi è una giornata di celebrazioni anche se per noi la festività solenne è fortemente offuscata dalla preoccupazione, viva e sincera, di tutta la classe dirigente dell'Isola per la gravità della crisi incombente, amplificata dalle carenze e dai ritardi ultrasecolari non ancora rimossi. E' di stretta attualità la vertenza in atto sulle entrate fiscali per la rivendicazione di un nostro diritto primario. L'Italia è un valore fondante che non può essere limitato a una unità politica o geografica, ma di vera reale partecipazione dove tutte le componenti territoriali regionali, con le loro diversità e specificità identitarie, culturali, storiche e sociali, costituiscono una ricchezza e un valore aggiunto sul quale fondare le speranze future di prosperità della nostra Repubblica. L'autonomia per i sardi è un forte vento di passione che esalta l'amore per la propria terra e acclama l'orgoglio delle proprie radici peculiari all'interno dell'unità della Repubblica. Repubblica nella quale lealmente crediamo e per la quale sinceramente ci siamo spesi, anche a costo del sacrificio più estremo, senza però mai rinunziare alla nostra specificità identitaria di popolo e Nazione sarda.

Per dirla con le straordinarie parole del compianto Presidente emerito Francesco Cossiga: "Autonomia, parola magica che, come sentimento, aleggia fra noi sardi fin dal 1847 quando, con la cosiddetta "perfetta fusione", il Regno di Sardegna da federato divenne unitario o semplice e l'isola perse la propria statualità individuale per assumere quella più umile di regione marginale del nuovo assetto istituzionale dello Stato. Nacque così la Questione Sarda ovverosia la coscienza di aver rinunciato a qualcosa, l'identità statuale, per la quale in tutto il mondo molti popoli hanno combattuto e combattono per ottenerla. Da allora, per noi, l'unica strada possibile che possa correggere il danno storico è stata e rimane la rivendicazione autonomistica, lo stabilire cioè un rapporto più favorevole possibile con l'apparato centrale dello Stato".

Io vorrei terminare il mio intervento con un auspicio: in un momento di grave crisi, quale quello che stiamo attraversando, il Popolo sardo deve avere la capacità di vincere una scommessa, quella dell'unità per il raggiungimento di un obiettivo alto e nobile, l'unità effettiva e la parità politica, culturale ed economica della Sardegna con l'Italia e con l'Europa.

(Applausi)

Sospendo la seduta.

(La seduta, sospesa alle ore 9 e 56, viene ripresa alle ore 10 e 18.)

(Durante il periodo di sospensione sono stati letti due brani, uno di Giorgio Asproni, tratto dalla "Lettera di Giorgio Asproni ai concittadini, 25 aprile 1847", e uno di Emilio Lussu, , tratto dal numero 6 dei "Quaderni di Giustizia e Libertà" sul Federalismo; sono stati eseguiti poi il canto de "Su patriottu sardu a sos feudatarios" di Francesco Ignazio Mannu, e l'Inno Nazionale Italiano.)

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CUCCA

PRESIDENTE. Ringraziamo le Autorità che hanno presenziato alla cerimonia, gli ospiti, i graditi ospiti, i colleghi consiglieri e tutti i presenti, compresi ovviamente i ragazzi del coro degli allievi del Conservatorio "Pierluigi da Palestrina" che hanno eseguito l'Inno d'Italia.

Il Consiglio sarà convocato a domicilio.

La seduta è tolta alle 10 e 19.



Allegati seduta

Documenti letti nel periodo di sospensione

"Lettera di Giorgio Asproni ai concittadini"

25 aprile 1867

Estratto

…Le isole hanno carattere proprio, ed indole propria. Rari sono i continentali che hanno la pazienza di studiarle con amore e con diligente investigazione. Dalla ignoranza dei costumi e delle tradizioni, dalla nissuna idea esatta che essi hanno di noi, nasce il giudizio erroneo delle nostre que-rele perpetue, giuste, e antiche. Quanti da lustri ci affatichiamo a reclamare riparazione e giustizia, ci abbiamo guadagnata la riputazione di esagerati e di fanatici. Nè dai soli oltremarini siamo frequentemente calunniati come tali; ma - cosa che più affligge - ripetono lo stesso menda-cio non pochi dei nostri concittadini che pur vivono in mezzo alle tormentate popolazioni e ne condividono le pene. Tanto può 1'abitudine alla servile rassegnazione, o il calcolo di farsi merito della negazione della verità!

Nel regno Supalpino eravamo soli; nel regno d'Italia abbiamo una Isola sorella negli affanni e nei dolori; un' Isola grande quanto la nostra per estensione di territorio, ricchissima di splendide memorie, insofferente di ogni tirannide, e quattro volte più popolata della nostra.

Di Lei dicono ciò che anni sono si diceva della Sardegna, che è ingovernabile, e che è necessario il ferro e il fuoco per frenarla. Ma perché la Sardegna era inquieta; perché la Sicilia freme e ribolle come l'Etna? Non le conoscono, non ne hanno studiato, non vogliono studiarne i supremi bisogni; non lasciano loro la facoltà di soddisfarli. E finché saranno amministrate e governate con proconsoli, col telegrafo, finché adopereranno i bottoni di fuoco, gli stati d'assedio, le fucilazioni senza forma, i giudizi sul tamburro, saranno infelici, e saranno un disturbo, una cangrena per lo Stato. Per legge eterna ed immutabile le isole sono e saranno, quali natura le fece, sui generis. Per sangue; per stirpe, per comunanza d'interessi sono e saranno italianissime, e in ambedue le isole surse primo il grido della nazio-nalità italiana. Noi la proclamammo nelle innocenti manifestazioni del 1847 e 48: la Sicilia si pronunciò nelle barricate della eroica Palermo. Ma questa felice unione non si può consolidare nè cementare con le violenze e con società leonine; bensì con la giustizia, con la eguaglianza dei diritti, e con la libertà.

Per i tributi e per gli oneri son messe in categoria di prima classe: anzi respinte e derise furono le ragioni della Sardegna che domandava parità di trattamento, quando le imponevano l'enorme tributo del 10 per 0/0, con centesimi addizionali per i soccorsi ( che non ebbe mai ) in casi di danni per ira della natura, mentre in Piemonte si pagava il 6 per 0/0. Abbiamo inoltre un catasto flagello.

…Ma è altrettanto per i benefizii ?

…Voi sapete qual'era lo stato miserando della nostra isola, quando nel passato autunno si riaprì di bel nuovo il Parlamento. Agli altri affanni, si accumulava la sterilità dell'annata, il povero ricolto dei cereali, e lo spettro della fame.

…I miei colleghi ed io non aspettammo di essere con petizioni stimolati a compiere il nostro uffìzio. Avevamo aperte due vie. La prima, acconcia a facile popolarità, con interpellanze, e discorsi commoventi e censorii dalla tribuna. La seconda, non clamorosa, ma più conciliatrice, e più profittevole alle supreme necessità delle nostre popolazioni. Scegliemmo questa, non curanti della critica e del biasimo di chi voleva parla-mentari rumori, come se la fame ammettesse dilazione, o si sedasse con le ciarle. Egli è vero che la Camera era benignamente disposta a favore della Sardegna; ma la discussione in materia così irritante poteva, inasprire il ministero, nè le nostre istituzioni hanno ancora tutta la efficacia della loro virtù, per credere che i ministri avrebbero fedelmente eseguito un ordine del giorno del parlamento.

…Chi sa i principii che io professo, ed i sentimenti che ho, comprenderà che mi ripugnano le instanze supplichevoli per cose che ci son dovute per giustizia. Ma io pensava alle angustie del paese, e nello intento di conseguire un pronto sollievo, scrissi memorie ai ministri per conto proprio, firmai le altre composte e sottoscritte d' accordo dai miei onorevoli e zelantissimi colleghi e con loro andai prima al sig. barone Ricasoli, e dopo ad esporre i mali ed i bisogni all'intiero Consiglio dei ministri.

…Con relazione ai Consigli provinciali dell' Isola, già da quel tempo pubblicata, il nostro paese fu informato di quel che facemmo, e delle promesse di provvedimenti, in parte mantenuti, e in parte finora mancati….

...Non sono, né sarò mai oppositore sistematico. Ho votato e voterò tutte le leggi ordinate al pubblico bene, qualunque sia stato e sia per essere il ministero o il deputato che le proponga- Sono stato e sarò sempre contrario a qualunque atto che offenda i principii di giustizia e di libertà. Chiederò e voterò tutte le possibili economie; chiederò e voterò una più equa ripartizione e riscossione delle imposte. Respingerò risoluta-mente qualunque nuovo balzello prima che sia rigorosamente discusso e approvato il bilancio, per dimostrarne la necessità.

…Propugnerò e voterò tutte le riforme che semplifichino l'amministrazione, estirpino gli abusi, e rialzino la pubblica moralità. Coopererò con fermo proposito ad allargare la libertà, e a rimuovere tutte le cause che la restringono e che la opprimono; perocché essa sola sia la medicina unica atta a guarire i mali pubblici….

Miei cari …..Concittadini, ora conoscete i pensieri del vostro deputato, e quel che fece e tentò di fare per la Patria, e per vostro bene in particolare. Se mi chiedete altre spiegazioni, io son pronto a darvele, come son pronto a ricevere i vostri consigli, ed a fare ogni cosa onesta per appagare i voti vostri…………….La vera forza al deputato gli viene dai suoi committenti, i quali non si debbono riposare e addormentare dopo aver eletto il loro rappresentante. Fate voi la parte vostra, e siate sicuri che io farò la mia con fedeltà e con patriottismo. GIORGIO ASPRONI.

Testo di Emilio Lussu pubblicato nel marzo 1933

Nel n. 6 dei "Quaderni" di "Giustizia e Libertà"

FEDERALISMO

La questione federalista e oggi più intricata di quello che non lo fosse tempi della formazione dell'unità nazionale. Allora la corrente federalista derivava dalla stessa particolare situazione politica per cui l'Italia risultava composta di differenti Stati sovrani: Stato sardo, Lombardo-Veneto, Modena, Parma, Lucca, Toscana, Stati pontifici, due Sicilie. Lo Stato federale, pertanto, appariva ai più come la forma più adatta a realizzare l'unità degli italiani. Era l'incirca la stessa situazione esistente in Germania e che condusse, senza grandi scosse, all'unità nazionale con l'impero federale. Il federalismo da allora non è una tendenza politica, ma uno stato di necessità.

Oggi evidentemente la situazione è diversa. Nessun federalista penserebbe oggi a far rivivere questi Stati scomparsi, e farne la base dello Stato federale. Occorre, dalla unitaria organizzazione provinciale dello Stato attuale, trarre i nuovi enti, le regioni o gruppi di regioni, che dovrebbero costituire gli Stati particolari della Repubblica federale.

Non basta più dire autonomie, bisogna dire federazione. La forma autonomistica sembrava sufficiente a chiarire una posizione anche unitaria dell'organizzazione dello Stato. Non è più sufficiente. Frequentemente accade di parlare con uno che riteniamo federalista perché si professa autonomista, e scopriamo invece, andando a fondo, che è unitario con tendenze per il decentramento. L'autonomia concepita come decentramento non è più autonomia. Gli autonomisti della Sardegna, della Sicilia del mezzogiorno in genere si chiamavano autonomisti perché per l'autonomia intendevano dire federazione, non già decentramento. Ma pure vi sono ancora non pochi che, credendo di aderire al loro postazioni, parlano di larghe autonomie provinciali o comunali, il che è tutt'altro affare. D'ora innanzi, adoperando la terminologia federalismo non saranno più equivoci. Tutte le vecchie concezioni autonomistiche espresse dal 1859 in poi in Italia, significa decentramento non altro. Anche Cavour parlava di autonomie regionali e certamente, se fosse vissuto ancora qualche anno, avrebbe organizzato lo Stato su basi regionali e non provinciali; ma sulla concezione non era discorde quella di Farine e di Minghetti, alla quale anzi s'ispirava. E questa era una concezione di decentramento statale, di poteri cioè delegati dal centro alla periferia, come nei vecchi consigli provinciali, come nei provveditorati agli studi, come in certi commissariati lavori pubblici costituiti dal fascismo subito dopo la marcia su Roma, come nell'alto commissariato per la Sardegna, ideato dall'onorevole Orlando verso la fine del 1918.

Dall'unità in poi ogni attività autonoma è scomparsa alla periferia e tutto è stato affettatamente affastellato al centro. Falliti i movimenti rivoluzionari democratici del 1848 del 1849, in cui ciascuna parte d'Italia, dalla Sicilia la Venezia, sprigionava una sua anima, e appassionata multiforme si rilevava la ricostruzione nazionale, tutto è stato livellato e ne è sorto uno Stato di cui i tecnici di diritto costituzionale lungamente hanno discusso se fosse uno Stato nuovo o il vecchio Stato piemontese allargato. Vanamente la Sicilia ha avuto le sue risurrezioni e Milano le cinque giornate, vanamente Manin ha levato il vessillo di San Marco e Mazzini entrato a Roma, vanamente Pisacane morto a Sapri e Garibaldi è arrivato a Napoli: ogni fiamma è stata spenta e ha dato luce e bagliori il fuoco d'artificio delle unità. Le differenti regioni non hanno più avuto alcuna vita propria. Il comune ha avuto minor importanza di una cooperativa e si è creata la provincia, equivoca struttura politica fatta per mascherare tutta l'armatura governative poliziesca che non dava la rappresentanza popolare locale altro diritto che quello di occuparsi di manicomi e di strade di secondo ordine. Il subalpino accresciuto si è provvisoriamente installato palazzo Pitti, ma poco mancò che a Torino non si levassero barricate stragi tanto sembrava ragionevole la convinzione che il restante d'Italia non dovrà essere altro che un'appendice annessa, supina e vassalla. E sul Parlamento, sovrana rappresentanza popolare, secondo il principio del liberismo teorico, pose subito le mani e i piedi il potere esecutivo per farne uno strumento necessario ai fini di un programma di livellazione reazionaria e unitaria. Lo Stato unitario dette subito i suoi frutti, impadronendosi dei collegi elettorali, corrompendo elettori ed eletti, diventando trionfalmente attraverso una burocrazia onnipotente, la forza centripeta dei cosiddetti consensi nazionali.

Il federalismo non è né un'impostazione di sinistra né un'impostazione di destra. E' una visione dell'organizzazione dello Stato che, a seconda dei tempi degli uomini che la esprimono, può essere conservatrice o rivoluzionaria. In Francia, fu reazionaria con la Gironda contro Parigi giacobina; fu conservatrice reazionaria in Italia con i moderati che nell'indipendenza nazionale volevano salvare principi, Papa, privilegi di casta e impedire che il popolo partecipasse alla lotta politica. Ma fu rivoluzionaria con Cattaneo che all'iniziativa dei sovrani regnanti sostituiva l'azione autonoma del popolo in armi e voleva la conquista di una democrazia che seppellisse tutto il passato. Se il federalismo d'oggi può in qualche modo riallacciarsi alle correnti federalistiche del Risorgimento, è a Cattaneo che esso si avvicina. Oggi, come allora per Cattaneo, rivoluzione significa rivoluzione profonda nel popolo nello Stato.

Ma i federalisti non si metteranno a rimanere, come Cattaneo e i suoi amici, un illustre Accademia di pensatori. E tanto più decisa e pratica sarà la loro azione in quanto sapranno che il federalismo non è una forma che possa ascendere autorevole dall'alto, ma l'espressione di un'aspirazione sentita la base. Lo Stato federale non può essere il trionfo di un gruppo di dottrinari alla concessione elargita per conciliazione, ma una conquista consapevole, reclamata e difesa dalle varie collettività nazionali.