Seduta n.24 del 09/06/2009
XXIV SEDUTA
Martedì 9 giugno 2009
Presidenza della Presidente LOMBARDO
La seduta è aperta alle ore 10 e 18.
Celebrazione del sessantesimo anniversario della prima seduta consiliare
PRESIDENTE. Colleghe, colleghi, signor Presidente della Regione, signori Assessori, signori Parlamentari, Autorità, è con animo sinceramente grato che vi porgo il saluto in apertura di questa seduta solenne. Consentitemi un saluto particolare, con affetto e deferenza, ai signori Presidenti del Consiglio e della Giunta regionale che, nel ricoprire i loro alti incarichi, hanno accompagnato il cammino autonomistico nel corso degli avvenimenti che hanno preceduto questa nostra Quattordicesima legislatura.
Colleghi, erano le 11 e 20 del 28 di maggio di sessant'anni fa quando, presso l'Aula del Consiglio comunale di Cagliari, si insediò il primo Parlamento della storia autonomistica. Il clima era quello di svolta epocale, il Presidente provvisorio dell'Assemblea, Angelo Amicarelli, parlò di "…segnare l'inizio del risorgimento della Sardegna che fu sogno di generazioni di sardi".
Il primo Presidente del Consiglio Regionale, Anselmo Contu, nella seduta del 31 di maggio, richiamò tutti allo spirito di servizio verso il popolo sardo, dicendo: "Ciascuno di noi ha una bandiera particolare degna e nobile, seguita con buona fede e onore; ognuno la custodisca nel cuore e - come è giusto - a essa si serbi fedele. Ma tutti dobbiamo ricordare che vi è una bandiera comune, consegnata a tutti noi dal voto dell'enorme maggioranza dei sardi e su questa bandiera c'è scritto 'SARDEGNA' ".
L'8 di maggio il popolo sardo, chiamato alle urne per dare espressione, con voto popolare e democratico a suffragio universale e diretto con sistema proporzionale, alla massima Assemblea dell'Isola, affidò ai primi legislatori regionali il difficile compito di costruire la nuova realtà istituzionale sarda. Di creare un nuovo e moderno tessuto sociale, economico e culturale. Di avviare l'Isola verso l'industrializzazione, per metterla al passo delle regioni più progredite. Di dar corso alle grandi opere pubbliche per dotare la Sardegna di infrastrutture edilizie, viarie e tecnologiche - come non ricordare le grandi dighe che dissetano ancora oggi la Sardegna o l'istituzione dell'Ente Sardo di elettricità - per supportare il grande sforzo della ricostruzione post bellica. Di avviare, in concorso con lo Stato, le grandi riforme (agricola, della formazione e istruzione) per dare ai sardi gli strumenti e i servizi per confrontarsi alla pari con le popolazioni più avanzate del continente italiano ed europeo. Di creare le grandi strutture ospedaliere di cui l'Isola necessitava, per creare un servizio sanitario di qualità e moderno. In una parola, avviare quello che, in tempi moderni, è stato definito il "sistema Sardegna" verso il futuro.
Furono anni molto operosi, volti a dare impulso a una stagione caratterizzata da un grande fermento per realizzare la crescita sociale, culturale e lo sviluppo economico. Dopo gli anni difficili e di grande miseria, segnati dal corso degli eventi bellici della Seconda guerra mondiale, la Sardegna finalmente si rivolgeva verso nuovi orizzonti di pace, lasciando alle spalle quel tragico passato recente. Molti erano gli interrogativi, i dubbi e le paure per un futuro che ancora ai più appariva incerto, ma l'opera dei nostri legislatori era sorretta da una ferrea volontà, che sempre emerge nel nostro popolo nei momenti di massima difficoltà.
Un sacro fuoco ardeva nei cuori dei padri dell'autonomia nel svolgere il compito loro affidato di guidare il popolo e la terra di Sardegna verso la rinascita sociale e culturale. Si trattava di dare avvio a un'attività legislativa per conferire alla nascente organizzazione regionale parlamentare le attribuzioni legislative e amministrative derivate dallo Statuto di autonomia speciale. Era necessario dare definizione alla personalità giuridica della Regione sarda, all'interno della Repubblica italiana, per assegnare un significato al principio che l'autonomia speciale per la Sardegna non era, e non poteva essere, una semplice forma di decentramento. Bisognava, insomma, dare forma e sostanza a una entità destinata a guidare i destini di un popolo, provvedere ai suoi bisogni, difenderne i diritti inalienabili.
In tutto questo contesto il Consiglio regionale ha svolto una funzione essenziale. E' stato lo strumento che ha consentito al popolo sardo di lottare per il proprio futuro. Ha raccolto tutte le spinte e i palpiti derivanti dalle aspirazioni dirette a esaltare le migliori energie e intelligenze di un popolo che grazie al suo Parlamento regionale finalmente ritrovava se stesso. Grazie al Consiglio regionale, che ha dato voce alle sue istanze più pressanti e difeso i suoi diritti, il Popolo sardo ha preso coscienza di non essere più periferia in Italia e in Europa. L'Assemblea dei sardi è stato il bastione dell'autonomia, custodendone gelosamente i valori, promuovendone i principi, esaltandone le prerogative. La voce dei sardi ha sempre trovato nella nostra istituzione la più ampia risonanza. Le aspirazioni e le aspettative del nostro popolo hanno sempre visto il Consiglio regionale farsene fiero interprete. Il nostro Consiglio regionale ha reso possibile costruire una società sarda democratica e avanzata attraverso un processo di crescita civile che noi vogliamo continuare a consolidare e contribuire a far evolvere.
Da quel 28 maggio sono passati sessant'anni, e oggi ci ritroviamo a commemorare quel fatidico momento storico rivivendo lo stesso clima di allora, con lo stesso spirito costituente che tante speranze accese nel Popolo sardo per un luminoso futuro fatto di benessere e prosperità. Sono stati, quelli trascorsi, anni caratterizzati da un costante impegno della classe politica sarda per il compimento dell'imponente trasformazione che, nel succedersi degli anni, ha modificato la nostra società portandola verso traguardi di modernità e di grandi conquiste sociali.
Nonostante le crisi che ciclicamente, in maniera endemica, colpiscono la nostra economia, questa è una Regione che è molto cresciuta rispetto agli anni dell'immediato dopoguerra; si è modernizzata avvicinandosi, per qualità della vita, alle regioni più avanzate d'Europa. Di questo va dato atto alle classi dirigenti che si sono succedute nel governo dell'Isola, portando a compimento la monumentale opera di costruzione o, se vogliamo, di creazione della nuova Regione autonoma. Ma questo non significa che l'opera sia giunta a compimento. Tali e tanti sono gli impegni che ci attendono per colmare gli ancora evidenti ritardi nello sviluppo, rispetto a regioni più avanzate d'Italia e d'Europa, da richiedere una nuova stagione di grande impegno della politica sarda.
Abbiamo attraversato un secolo, eppure oggi, agli inizi del terzo millennio, siamo qui a chiederci, ancora una volta, quali indirizzi attuare per guidare il nostro popolo consolidando il percorso verso quell'agognato sviluppo iniziato sessant'anni fa. La crisi che ha colpito tutti i mercati internazionali sta creando difficoltà aggiuntive alla nostra economia, già duramente provata da anni drammatici a causa delle ben note carenze nello sviluppo che hanno determinato il collasso di quasi tutte le attività produttive. Carenze imputabili, per la maggior parte, alla nostra condizione geografica di insularità e alla conseguente lontananza dei mercati nazionali e internazionali. Infatti, possiamo affermare che la nostra particolare condizione geografica ha agito da moltiplicatore sulle altre cause e fattori che hanno inciso sui ritardi nello sviluppo. Noi siamo chiamati a reagire a questa negatività, rinsaldando lo spirito unitario del Popolo sardo per superare le difficili sfide che ci attendono con uno slancio generoso e solidale.
L'insularità, dicevo. I sardi hanno sempre vissuto il mare, dopo averlo dominato in epoche antichissime, come ci ricordano alcuni storici, non come una risorsa ma come uno strumento che consentiva ai nostri nemici e avversari di depredare le nostre coste e colonizzare l'Isola. Per questo motivo abbiamo sviluppato nel tempo una economia storica improntata maggiormente sul sistema agro-pastorale. In quanto le popolazioni sarde, per sfuggire a questi pericoli, hanno preferito ritirarsi verso le zone interne, più sicure e difendibili, abbandonando il controllo del mare e lo sfruttamento delle sue immense risorse.
La rinuncia al controllo del mare, e delle rotte di collegamento, ci ha portato a sviluppare una sorta di "splendido isolamento" che ha generato una cultura originale e unica nel bacino del Mediterraneo. Una cultura identitaria formata da tutti i connotati della nazionalità e della statualità, avendo propria lingua, propria terra, proprie tradizioni e costumi. Un patrimonio che ha portato i sardi a sviluppare, nelle diverse epoche storiche, aspirazioni e culture differenti e distinte dalle popolazioni della Penisola italiana ed europea. Anche in questo si fondano le ragioni della nostra specialità, ma non solo.
I primi legislatori avevano fin troppo evidente la necessità che i sardi rovesciassero il rapporto che li legava al mare che li circonda. In tutti prevalse la convinzione che bisognava trasformare questo rapporto in termini di riappropriazione di questa fondamentale risorsa, per spezzare le catene di un isolamento che la società moderna non poteva più permettersi. Riconquistare il mare ha significato creare una grande rete di trasporti marittimi e aerei per cercare di collegare in un "unicum" la Sardegna con il continente italiano ed europeo.
Ancora oggi le istituzioni regionali sono impegnate a creare le migliori condizioni per consentire ai sardi di muoversi liberamente e rapidamente, superando la barriera fisica di quel mare che ci separa dal resto del mondo. Proprio per rispondere a questa esigenza primaria, nei primi anni cinquanta e sessanta, fu dato impulso ai collegamenti marittimi per persone e merci, riconoscendo il valore strategico di questo settore ai fini delle potenzialità offerte alla crescita e allo sviluppo economico dell'intera Isola.
Sin dal primo Piano di Rinascita, negli anni '60 del secolo scorso, si ritenne indispensabile collegare la rete ferroviaria sarda a quelle del resto della Penisola attraverso grandi navi per trasporto merci delle Ferrovie dello Stato. Servizio sciaguratamente ridimensionato, con tutte le immaginabili conseguenze negative sulla nostra economia e sulla mobilità delle merci. Si potenziarono i collegamenti aerei, assicurati anche dalla compagnia sarda, oggi conosciuta come Meridiana, ma che nel 1963, quando fu costituita, si chiamava Alisarda. Una spinta, quella tesa a spezzare l'isolamento, che è sempre rimasta costante durante tutto lo svolgimento delle legislature regionali. Purtroppo, nonostante questi lodevoli sforzi, dobbiamo constatare che siamo ancora un'Isola che è priva di una propria economia marittima, date le forti limitazioni nella gestione dei collegamenti. Questo ci rende ostaggi delle nostre coste. Isolati nella nostra Isola, perché dipendenti da decisioni, e talvolta capricci, altrui per la libertà dei nostri movimenti.
Molto ci sarebbe da discutere sulla mancata realizzazione di una effettiva illimitata continuità territoriale. Però, non è questa l'occasione. Ma forse qualcosa sta cambiando. L'attuale situazione politica ci porta a valutare come, finalmente, abbia trovato sanzione la storica rivendicazione dei sardi ad avere riconosciute misure compensative per colmare i ritardi nello sviluppo causati dall'insularità. La legge sul federalismo fiscale, recentemente approvata in via definitiva, oltre a dare piena attuazione al dettato dell'articolo 119 della Costituzione, in materia di fiscalità agli enti locali, ci ha conferito uno storico riconoscimento: quello del "principio di insularità" che consente l'adozione di apposite misure di compensazione alle diseconomie imputabili alla nostra particolare condizione geografica.
Questo importante riconoscimento ci dà l'occasione per sottolineare un fatto essenziale: oggi siamo, come lo si era allora, avvinti da un clima di costruzione di una nuova architettura dell'ordinamento regionale e della Costituzione repubblicana. In Sardegna, recentemente, si è rinvigorito il dibattito sulla necessità di una rivisitazione critica della nostra Carta di autonomia speciale. E questo certamente non per effettuare una semplice perifrasi di quella esistente ma per dotarci di una nuova Carta costituzionale sarda, originale, moderna e avanzata sulle prerogative autonomistiche.
Siamo, a tutti gli effetti, in una fase di acquisizione di una nuova consapevolezza identitaria e nazionale sulla quale basare i presupposti per la riscrittura delle norme fondamentali che regolano la nostra autonomia e sostengono le ragioni della nostra specialità. Una specialità che, a detta di alcuni, potrebbe essere minacciata e scomparire in un futuro ordinamento federale della Repubblica.
Certamente no! La nostra specialità deriva da diritti storici, frutto di processi ultrasecolari, che non possono essere cancellati. I sardi, e il loro Parlamento regionale, non intendono rinunciare alla loro specialità in nome di una ipotetica parità di impronta federale. Il nostro popolo ha saputo mantenere intatti i connotati della propria originale cultura, resistendo a qualsiasi tipo di colonizzazione politica e intellettuale, attraverso quella che il professor Lilliu ha definito la "costante resistenziale sarda". Le lotte, le vicissitudini, le sconfitte e le vittorie hanno temprato il popolo sardo e ne hanno consolidato la coesione. Ciò rende possibile affermare che fino a quando esisteranno una terra e un popolo di Sardegna, questi all'interno dell'ordinamento statale della Repubblica saranno connotati dai caratteri della nostra specialità. Ma una semplice affermazione di principio non è sufficiente. Nessuna norma giuridica potrà riconoscerci quello che non alberga nei nostri sentimenti e nella nostre menti.
Per questo, pur rifuggendo da qualsiasi velleitarismo estremizzante, noi sardi dobbiamo prendere coscienza che, seppure all'interno dell'unità e indivisibilità dello Stato oggi chiamato Repubblica italiana e nel quale convintamente ci riconosciamo, siamo Popolo e Nazione. In questo trova sanzione il principio secondo il quale la Nazione, così come affermano storici e costituzionalistici, è differente dallo Stato. Lo Stato appartiene a una sfera politico-giuridica. La Nazione esprime uno status culturale. Ciò ha reso possibile nei processi di formazione degli Stati, l'esistenza di più Nazioni all'interno dello Stato, o di Nazioni che esistono in Stati diversi, senza minare minimamente l'unità e l'indivisibilità degli stessi. La Nazione nasce e si forma nel corso anche di millenni di condivisione di lingua, cultura, costumi, tradizioni e interessi. Per questo talvolta precede o sopravvive agli Stati stessi. E non vi è dubbio che i sardi hanno attraversato le diverse epoche storiche, mantenendo inalterati i caratteri della loro identità e nazionalità.
E seppure il 20 dicembre del 1847, attraverso un decreto legge firmato da Carlo Alberto in nome della fusione perfetta, e sollecitato da due delegazioni che parlarono a nome degli Stamenti - i quali per la verità non furono mai convocati per discutere l'iniziativa - abbiamo perso la nostra statualità, sciogliendo l'istituzione parlamentare nata a Cagliari nel 1355, mai abbiamo rinunciato alla nostra soggettività politica, storica e culturale! Alla base di queste ragioni poggiamo la nostra rivendicazione ad avere riconosciuta dallo Stato, cui apparteniamo, la nostra specialità a prescindere dalla forma ordinamentale che esso intende assumere per oggi e per il futuro.
Uno Statuto il nostro che, nel ribadire lo status di autonoma determinazione dei sardi, non deve mai perdere il senso di una leale appartenenza alla nostra Repubblica e all'Europa. Il Consiglio regionale però non può assistere inerme al grande processo di riforma delle nostre istituzioni repubblicane. Esso deve farsi promotore di ogni possibile iniziativa tesa a proporre un nuovo Statuto. Per farlo, questo Consiglio della Quattordicesima legislatura regionale deve partire dall'affermazione di se stesso attraverso l'assunzione del principio che noi rappresentiamo e siamo il Popolo sardo. Un popolo formato da chi vi è nato, da chi è emigrato, ma ancora mantiene salde radici di affetto e di continuità di rapporti con la sua terra d'origine. Non ultimo, da chi, pur non essendovi nato, ha scelto di abitare, amare e rispettare questa nostra terra e che, a buon diritto, può definirsi sardo a tutti gli effetti. Perché i sardi non sono solo quelli che sono nati nell'Isola, ma chiunque scelga di adottare la nostra terra e i nostri valori difendendoli e sentendosene parte integrante!
Colleghi, la seduta odierna del Consiglio regionale, che oggi festeggia se stesso e i suoi sessant'anni di vita parlamentare, deve spingere tutti noi a trovare nuova linfa in una rinnovata unità sui temi posti alla base del comune sentire del nostro popolo. Ed è bene riflettere su questo incommensurabile valore di unità del popolo sardo. Un'unità che prima di tutto deve essere morale e politica e quindi recepita appieno nella nostra nuova Carta di autonomia speciale. Noi possiamo dividerci sugli indirizzi di governo, ma dobbiamo sempre affermare un comune sentire nel difendere i diritti storici del Popolo sardo che, come tale, è un'entità indivisibile, unica e irripetibile.
Prima di avviarmi alla conclusione, voglio ricordare tutti i nostri predecessori che ci hanno donato lo splendido lascito di un Parlamento regionale al servizio dei sardi e che, nelle diverse legislature, hanno difeso e onorato la Sardegna dai banchi di questo Consiglio. A loro va il nostro commosso pensiero e ringraziamento.
Colleghe, colleghi, il nostro ruolo di legislatori regionali, e ogni nostra azione politica conseguente, deve essere incentrato a promuovere l'unità spirituale dei sardi, ben consapevoli che le nostre radici affondano nel cuore di questa terra dalla quale l'Assemblea trae ispirazione e forza per governare il Popolo sardo.
(Applausi)
Ha facoltà di parlare il Presidente della Regione.
CAPPELLACCI (P.d.L.), Presidente della Regione. Colleghi, onorevole Presidente del Consiglio, signori Assessori, signori Parlamentari, Autorità, cittadini, sessant'anni fa, iniziava la nostra stagione autonomistica con la sconfitta delle forze che, negando gli antichi diritti, per secoli avevano costretto la Sardegna a non autogovernarsi, a vivere senza poter esercitare al meglio i valori identitari e di libertà e democrazia innati nell'animo e nella cultura di tutti i sardi. Prima di quella storica seduta gli ultimi vent'anni trascorsi erano stati tra i più drammatici e dolorosi.
Ma oggi, piuttosto che volgere lo sguardo al passato, è opportuno rivivere lo spirito del 28 maggio del 1949, giorno della prima seduta del Consiglio regionale. Una data importante che oggi solennemente celebriamo e che si svolgeva ad appena quattro anni dalla fine della guerra. In quei quattro anni, tumultuosi e magnifici, con la libertà rinacquero i partiti, si aprì il dibattito sui contenuti e le forme del nuovo Stato democratico, che si volle dotato di una Costituzione repubblicana e autonomistica.
In Sardegna riemerse con forza il pensiero autonomista, si svolsero elezioni, operò la Consulta regionale sarda che dibatté sull'argomento e propose alla Costituente un articolato progetto di Statuto speciale per la Sardegna. Non fu facile raggiungere una sintesi fra le posizioni presenti nella Consulta e non è difficile, leggendo i verbali dei lavori, identificare le diverse concezioni sull'autonomia espresse dai diversi partiti che la formavano: federaliste, favorevoli a un più o meno blando decentramento o nascostamente antiautonomiste.
Ci fu concesso dalla Costituente, e nell'ultimo giorno utile, lo Statuto di autonomia speciale, depotenziato rispetto alla proposta della Consulta, senza riferimenti alla lingua e alla cultura dei sardi, di molto inferiore a quello siciliano che per un attimo avremmo potuto ottenere. La democrazia era comunque una realtà e la conquista autonomista era un risultato senza precedenti nella storia della Sardegna e, celebrate le elezioni, si insediò il primo Consiglio regionale che oggi opera nella sua Quattordicesima legislatura.
Non esprimo analisi storiche e politiche su questi sessant'anni di storia, né voglio ripetere tesi già abbondantemente note e dimostrate, e neanche affermarne di mie particolari. Intendo però testimoniare con forza il valore positivo in tutti i sensi dell'esperienza autonomistica della Sardegna che ampiamente sovrasta i non pochi elementi di negatività da noi tutti conosciuti. I risultati dell'autogoverno, esercitato attraverso il lavoro legislativo, di indirizzo e di controllo di intere generazioni di consiglieri regionali, sono evidenti a tutti e hanno cambiato il volto della Sardegna e la vita dei Sardi. Tuttavia confermo e riaffermo con decisione la necessità irrimandabile della riscrittura del nostro Statuto d'autonomia speciale.
Questo obiettivo è uno dei cardini del programma politico della coalizione che ha vinto le elezioni. Come riforma costituzionale prioritaria è stata indicata coscientemente agli elettori, ai quali dobbiamo rispondere dopo un lungo lavoro operato durante la passata legislatura con discrezione e serietà dalla maggioranza delle forze d'opposizione. Si è trattato di un lavoro di ridiscussione dell'autonomia portato avanti senza pregiudiziali e durato diversi anni a opera di un Comitato appositamente formato e seguito direttamente dai Capigruppo dell'opposizione, che è stato presentato più volte pubblicamente nelle varie stesure e sino al progetto finale. E' stata elaborata una proposta completa e articolata, condivisa nelle sue linee portanti e di principio da tutta la coalizione di centrodestra, creando le condizioni di condivisione culturale e politica all'accordo programmatico con il Partito Sardo d'Azione.
Posso affermare con orgoglio che questa maggioranza, col programma presentato vittoriosamente agli elettori, ha operato una scelta federalista e nazionalitaria, liberale, moderata e non massimalista, ma decisa e convinta, con l'obiettivo di ottenere, non alle calende greche ma prima possibile, un nuovo Statuto d'autonomia speciale per la Sardegna, confidando nella centralità del Consiglio regionale su questo tema costituzionale. Si tratta, come è evidente, della sfida strategica della legislatura. Intendiamo partecipare alla riscrittura della Carta autonomistica, che non ha più le caratteristiche sufficienti per affrontare i nuovi tempi e dare risposte ai sardi, partecipando alla riforma federale della Repubblica da protagonisti e seguendo il percorso indicato dalla Costituzione repubblicana. Sono cosciente che la Sardegna fa parte di un tutto e che forse non tutto ciò che desideriamo sia realizzato, in termini di evoluzione della nostra autonomia, possa essere raggiunto subito. Ciò però non deve indurci ad autoridurre preventivamente il nostro progetto, a rinunciare ai nostri diritti, ai nostri desideri e sogni di maggiore libertà e cooperazione con chi condividiamo la comune casa Repubblicana ed Europea.
Certamente, nello spirito e nel programma della maggioranza non è prevista qualsivoglia modifica costituzionale che dall'esterno cambi unilateralmente il nostro Statuto speciale senza un fecondo rapporto pattizio tipico del vero federalismo politico, né patteggiamenti al massimo ribasso che escludano il protagonismo dei sardi.
Sono trascorsi pochi mesi dall'inizio della legislatura e dall'esperienza di governo della Giunta che ho l'onore di presiedere, all'interno di una crisi epocale di difficile soluzione e che colpisce duramente la nostra isola. Ma riusciremo a superarla. Per questo, anche se si impongono soluzioni immediate e di medio respiro, messe a punto e aggiustamenti delle soluzioni e strumenti economici e politici atti ad affrontare al meglio una situazione di crisi in rapida evoluzione, non si deve abbandonare la lunga prospettiva. Bisogna allora unire le forze, i cuori e le menti, prima nella maggioranza per affrontare le emergenze e portare a compimento il programma sottoscritto con gli elettori, aprendo nel contempo un confronto con l'opposizione per quanto riguarda le riforme costituzionali che interessano la Sardegna.
A questo proposito, vorrei affrontare meglio due questioni che ritengo importanti. La prima è, appunto, la riscrittura dello Statuto speciale, che richiede unità di intenti, obiettivi comuni chiari e la volontà di completarla entro tempi certi o almeno programmati. Sono favorevole a un approccio riformista alla questione e non massimalista, basato su contenuti, sul confronto politico e culturale e sulla condivisione piuttosto che su nominalismi.
Agli albori del percorso autonomistico, da Attilio Deffenu in poi, il termine "autonomia" era considerato negativamente dai suoi oppositori, dallo Stato monarchico e centralista, un obiettivo massimalista, rivoluzionario, disgregatore dell'unità dello Stato e a volte eversivo. In effetti erano i tempi della rivolta irlandese contro l'Inghilterra ed era plausibile che molti autonomisti avessero reconditi pensieri d'indipendenza all'irlandese. Oggi il termine "autonomia" è una conquista di tutti, anche se per molti è considerato leggero, depotenziato, non più rispondente alle aspirazioni più avanzate di autogoverno. Questo giudizio si è rafforzato soprattutto a fronte della rincorsa sulle "speciali" delle autonomie "ordinarie", per cui l'autonomia anche se "speciale" non sembrerebbe terminologicamente più adatta a identificare un più avanzato progetto di autogoverno da una omologazione indesiderata.
Data l'accettazione generalizzata del processo d'unione europea non può più essere impiegato in senso di totale separazione statuale e sovranità totale, con frontiere e moneta ed esercito propri, tipica del separatismo secessionista del secolo scorso e che comunque in questo Consiglio tutti rifiutiamo. A maggior ragione, comunque si possa utilizzare il termine "indipendenza" per la battaglia politica e ideale, non è ammissibile neanche in via teorica il propugnare l'uso di qualsiasi forma di violenza o di uscita se pur minima dalla legalità e dalle procedure costituzionali.
Ciò avveniva quasi trent'anni or sono, in piena guerra fredda, con l'Unione sovietica e il comunismo imperante oltre la cortina di ferro, col muro di Berlino in piedi, con le frontiere ancora innalzate fra gli Stati impegnati in un processo di unificazione europea ancora immaturo. Sarebbe sembrato insensato ipotizzare allora il realizzato allargamento a Est dell'Unione europea. Non esisteva l'euro e le principali competenze sovrane degli Stati oggi aderenti all'Unione non erano state ancora devolute a Bruxelles e Strasburgo.
Tuttavia l'affermazione di principio sardista costituì una prima e forte denuncia dell'insufficienza e obsolescenza della autonomia sarda e prefigurava la richiesta di nuove regole di sovranità e di autogoverno attraverso una riforma federale che ridefinisse i rapporti con lo Stato centrale con un nuovo patto federale. Vista storicamente, la richiesta era nella sostanza tanto giusta e avanzata da suscitare entusiasmo e condivisione da parte di tanti sardi soffiando il "vento sardista" che, pur prematuramente rispetto a tempi migliori, ebbe il merito di innescare in Sardegna un ripensamento generale sulla questione sarda.
Quel ripensamento, iniziato a trent'anni dalla prima riunione del Consiglio regionale, nella metà del sessantennio che oggi celebriamo, riaccese il fuoco federalista all'interno della Repubblica e tutti noi ne godiamo oggi i frutti con una nuova e più avanzata consapevolezza autonomistica. Quella affermazione di indipendentismo federalista, che tanta reazione generò fra i centralisti di ogni tipo, fu levatrice di un altro movimento che crebbe tanto da contribuire alla caduta della prima Repubblica, imporre l'alternanza e diverse modifiche costituzionali in senso federalista. Quel movimento governa oggi l'Italia esprimendo fra l'altro anche il Ministro degli Interni e si definisce nel suo Statuto "Lega Nord per l'Indipendenza della Padania".
Dal mio punto di vista, nella condizione politica italiana, pur aspirando a un'Europa dei popoli più che a quella degli Stati nazionali ottocenteschi, ferme le premesse di sistema, i termini "autonomia" e "indipendenza" praticamente coincidono, sono sinonimi che si caratterizzano esclusivamente per i contenuti concreti che vengono affiancati alla semplice enunciazione delle rivendicazioni. Ed è quindi sui contenuti concreti della riscrittura del Nuovo Statuto d'autonomia speciale che si apre il confronto e la collaborazione per elaborare in tempi brevi un progetto all'altezza degli obiettivi del programma di governo della Sardegna e degli indirizzi del Consiglio regionale e non sui nominalismi.
Per questo ritengo che, se è ovviamente libera ciascuna forza politica facente parte della maggioranza di preferire un termine a un altro come identificativo culturale e per tener fede ai dettami statutari, siano presenti nel programma della coalizione che ha vinto le elezioni tutti gli elementi di condivisione per mettere mano senza indugio alla riscrittura del nostro Statuto raggiungendo il massimo degli obiettivi di competenze e autogoverno raggiungibili nelle condizioni date.
Fatto salvo il rispetto quasi religioso che ho per l'autonomia e le prerogative del Consiglio regionale, che possiede tutte le competenze e i poteri necessari per definire il percorso, i tempi e i metodi per raggiungere l'obiettivo di un nuovo Statuto, la Giunta che presiedo farà tutto il possibile affinché questo processo abbia inizio e termini il prima possibile in tempi utili, come realizzazione di uno dei temi principali del programma sottoscritto con gli elettori. Del resto in altri Stati europei il percorso di trasformazione federale vede altre Nazioni senza Stato come la sarda, ottenere sempre più autonomia quasi statuale, con periodici aggiornamenti dei loro statuti.
Ciò avviene nel rispetto dei generali mutamenti che avvengono nel tempo e delle occasioni politiche che si presentano nel rapporto con i loro Governi e Parlamenti centrali, come a esempio nella vicina Catalogna. Sempre questi esempi ci ricordano che le modifiche o riscritture degli Statuti abbisognano della coscienza di sé e del consenso delle maggioranze dei popoli per i quali si richiedono tali modifiche costituzionali e che avvengono gradualmente e per tappe successive.
Vorrei introdurre il secondo punto della mia riflessione, per evitare che l'argomento della riforma statutaria possa sembrare allontanarci dagli interessi materiali contingenti dei sardi, delle famiglie, dei giovani, delle donne, dei lavoratori o disoccupati, piccoli e medi imprenditori o operatori culturali e di tutti coloro che affrontano ogni giorno la difficile arte del vivere e a volte del sopravvivere.
Trovo che sia opportuno, oltre rivendicarne la riscrittura, pretendere l'attuazione completa dello Statuto vigente in quelle parti per niente rispettate e attuate nel governo della cosa pubblica. Voi sapete bene che molto depotenziamento degli effetti della nostra autonomia è dipeso dallo Stato centrale che ha ritardato e omesso di emanare molte norme di attuazione dello Statuto. Questo è il caso dell'articolo 12 che prevede la realizzazione di punti franchi nell'Isola. Sessanta anni fa era forte l'aspettativa dei nostri colleghi di allora per la prevista realizzazione di una libertà doganale e fiscale che servisse a sconfiggere gli effetti del protezionismo centralista che tanti danni aveva fatto alla Sardegna abbattendo parte delle storiche diseconomie insulari, tariffarie e fiscali, ostacolo allo sviluppo e al benessere.
Allora questa previsione inserita nello Statuto era il risultato di una visione profetica e lungimirante di federalismo fiscale dei padri dell'autonomia, non realizzata purtroppo in Sardegna nei 60 anni di vita autonomistica, ma adottata in tutto il mondo e in Europa come uno dei fattori principali di ricchezza e progresso sia in Paesi sviluppati che in via di sviluppo. Nulla si mosse per realizzare la libertà fiscale e doganale prevista per la Sardegna con legge costituzionale per quasi mezzo secolo, malgrado movimenti, dibattiti, proposte di legge presentate in tal senso. Solo nel 1998, a seguito di una forte mobilitazione sarda, fu emanata una norma di attuazione dell'articolo 12 dello Statuto che disponeva la nascita di zone franche a Cagliari, Porto Torres, Oristano, Portovesme, Arbatax e Olbia.
Successivamente, il 21 aprile 1999, con Intesa istituzionale di programma, fu prevista l'introduzione sull'intero territorio regionale di misure volte a realizzare una zona franca fiscale finalizzata all'abbattimento dei costi dei fattori produttivi. Ancora dopo, nel 2001, veniva rafforzata con un ulteriore decreto di attuazione la possibilità di decollo della zona franca di Cagliari, stabilendo norme di gestione e altro utile per una sua celere attivazione.
Tempus fugit.
Non è mia intenzione recriminare o cercare responsabilità di nessun tipo, mi importa però confermare l'impegno preso nel mio programma di governo di attivare ogni azione affinché il decreto che istituisce le zone franche in Sardegna attuando l'articolo 12 dello Statuto vigente divenga realtà. Sono convinto che la fiscalità di vantaggio per la Sardegna debba seguire un percorso specifico e in forza delle ragioni della nostra autonomia speciale, anche in altre zone interne e urbane con tutte le diverse modalità possibili. Ma è inaccettabile che, a distanza di sessanta anni, i sardi non possano utilizzare uno strumento economico statutariamente previsto per attirare nuovi investimenti, capitali e opportunità per imprenditori sardi e provenienti fuori dall'Isola, creando occupazione e un aumento riqualificato del Prodotto Interno Lordo della Sardegna.
In questa riunione solenne, nel rispetto dei ruoli e delle competenze fra legislativo ed esecutivo, ma conscio delle interrelazioni indispensabili per il generale buon governo, ho ritenuto affrontare questioni fra le tante degne di essere citate e che interessano il presente e il futuro dei sardi. Questi temi rappresentano terreno di operatività alta per la nostra Assemblea legislativa e per l'Esecutivo regionale al fine, sempre ricordando i nostri illustri predecessori, di continuare a operare nella migliore tradizione di autogoverno, di giustizia, solidarietà e libertà del popolo sardo.
(Applausi)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Mario Floris.
FLORIS MARIO (Gruppo Misto). Signori Presidenti, parlamentari, Autorità, colleghi, la Regione Autonoma della Sardegna ha compiuto sessant'anni, in quel lontano 1949 ha ripreso a esercitare poteri liberi e autonomi, poteri propri di un'entità politica e giuridica capace, autorevole, responsabile di determinare il proprio divenire in materie e campi fondamentali della convivenza civile, fondati sulla coesione morale, sociale e culturale che connota un popolo, il popolo sardo.
Dire queste cose e fare queste affermazioni, così come quelle che la maggior parte delle rappresentanze politiche e culturali da sempre, e ancora oggi, dicono e affermano, in ogni manifestazione, affermare cioè la sardità come valore esclusivo dell'essere figli, madri e padri di questa terra, di questa nostra isola di Sardegna, non è coltivare o professare un'idea di indipendentismo o di separatismo, come è stato, in maniera affrettata, anche di recente, interpretato l'anelito per affrancare la Sardegna, e i sardi, dalle condizioni di ritardo e di progresso civile nelle quali è relegata. Certo, per insufficienza nostra e di una classe politica dirigente che, pur avendo svolto alcune illuminate e positive azioni, in sessant'anni di autonomia non è sempre stata in grado di tenere il passo con i tempi, ma molto di più perché lo Stato non ha mantenuto fede, nei confronti dell'Isola, agli impegni costituzionali e statutari di pari condizioni di sviluppo e di progresso per tutti i territori e per tutte le popolazioni del Paese.
A sessant'anni dalla nascita della Regione Autonoma della Sardegna, dobbiamo con forza rivendicare questi diritti, avendo la consapevolezza che, nei confronti dell'Italia, in tutta la sua accezione, abbiamo sempre fatto e facciamo il nostro dovere, come regione e come popolo, tutelando, valorizzando, esaltando i valori di unità nazionale in un contesto e in una dimensione sovranazionale ed europea, fondati sui principi del federalismo, di un federalismo non astratto, ma solidale di cooperazione e coesione sociale ed economica. Sono questi alcuni degli elementi fondanti della nostra autonomia, della storia del nostro popolo.
I sacrifici che le donne e gli uomini di Sardegna hanno affrontato in passato e affrontano ogni giorno, come quelli estremi dei tre lavoratori di Villa San Pietro morti nel lavorare alla Saras, che anche oggi ricordiamo con affetto e con rispetto, impegnano noi tutti ad affrontare definitivamente con coerenza, convinzione e determinazione, la questione delle regole fondamentali della nostra convivenza civile e della nostra autonomia. La giornata di oggi, per lo meno noi la riteniamo non un'anacronistica autocelebrazione, una passerella, ma è il momento e può rappresentare il momento storico che segna una netta demarcazione tra il passato e il futuro, lo spartiacque dal quale prende l'avvio la tappa, la sfida più esaltante che è affidata alle nostre capacità di anteporre gli interessi di parte al percorso della nostra autonomia.
Lo Statuto sardo in questi sessant'anni ha dato tanto alla cultura, all'economia e al progresso della Sardegna, ma vorrei che non fosse dimenticata la sua genesi e non fosse enfatizzata la sua originaria limitatezza, rispetto a possibili forme più ampie di autonomia, che nella legge costituzionale aveva indotto a giudizi severi e nel contempo ironici, come quello di Emilio Lussu, che affermò che si era materializzato un gatto piuttosto che un leone, a significare insoddisfazione e moderato ottimismo. A me piace ricordare, per il significato e il valore straordinario che esso ha, anche rispetto a querelle di questi giorni, il concetto espresso alla Costituente da Salvatore Mannironi: "L'autonomia speciale alla Sardegna non è una gentile concessione dello Stato, ma è un diritto naturale del popolo sardo", concetto di stringente attualità che deve rimanere il perno della nostra Carta costituzionale sarda, che è l'impegno irrinunciabile e ineludibile di questa legislatura, del quale portiamo il peso e la responsabilità.
Il vento dell'autonomia ha ripreso a soffiare, a soffiare forte e con esso il vessillo della nostra specialità, simbolo dell'affermazione della Sardegna come popolo e come nazione, piccola patria d'Europa. Esprimere valutazioni, idee, ipotesi, indicare possibili percorsi e soluzioni, non solo aspirazioni, su questi temi può rappresentare un arricchimento al dibattito e al confronto che presto dovremo portare in tutte le sedi possibili, anzi è un segnale che il problema è sentito e che casomai urge risolverlo e non lasciarlo nel dimenticatoio delle segrete stanze, come è avvenuto nel recente passato. Oltretutto la modifica del Titolo V della Costituzione ce ne fa carico in maniera specifica e urgente, ampliando la sfera delle potenzialità autonomistiche. La stessa originaria struttura del 1948 della Repubblica è cambiata. Con la riforma del 2001, comuni, province, città metropolitane, Regioni e Stato sono posti in condizioni di parità istituzionale, con diversi livelli e contenuti di poteri, di funzioni, di responsabilità. La legge costituzionale, come tutti sappiamo, conferisce al Consiglio regionale, tra l'altro, la potestà di iniziativa di modifica dello Statuto, la cui approvazione definitiva rimane in carico al Parlamento, secondo le procedure di formazione delle leggi istituzionali.
Or bene, sono trascorsi ben otto anni da quella riforma del Titolo V della Costituzione e nulla, purtroppo, si è mosso. Occorre fare subito e occorre fare in fretta perché si possano realizzare le necessarie congiunture favorevoli, congiunture che oggi ci sono ancora e che sarebbe imperdonabile non sfruttare appieno sia a livello locale che a livello parlamentare. Avremo, spero in tempi brevi, l'opportunità di tornare sull'argomento. Oggi è rilevante dare un segnale di disponibilità e di impegno per affrontare, nei modi e nei tempi giusti, il problema cardine della nostra autonomia, qual è appunto quello della riscrittura moderna e progressista dello Statuto sardo, strumento irrinunciabile per dare modernità e sviluppo alla Sardegna e per riscattarla dalla subordinazione culturale e politica che l'ha penalizzata e la penalizza da troppo tempo.
Per salvare la Sardegna e per riscattarla dalla subordinazione culturale occorre, a mio giudizio, superare le logore e vetuste forme di lotta politica che tendono a demonizzare i rapporti tra il Governo regionale e quello nazionale, per far apparire i sardi dei "minus habens", succubi, proni al potere romano. Così facendo non costruiamo proposte unitarie e ci prestiamo alla logica di chi utilizza le nostre divisioni per condannarci all'immobilismo e alla subalternità. La maggioranza, signor Presidente, su riforme istituzionali e su riforme fondamentali per la vita e lo sviluppo della Sardegna, non può arrogarsi il diritto di rappresentare l'universo mondo, così come la minoranza non può imporre la propria visione sovvertendo i risultati elettorali. Occorre un salto di qualità per definire in assoluta libertà, come Consiglio regionale dei sardi, i nostri bisogni, le nostre ragioni e le nostre richieste, e su questo fondare le conseguenti azioni da intraprendere a difesa dei nostri diritti di popolo-comunità. I tempi non sono una variabile indipendente, sono determinanti. A mio giudizio, siamo già in ritardo perché il Governo ha già fatto un anno di vita, sappiamo che cosa può avvenire in questo frattempo.
Sappiamo che esercitare un impegno resistenziale per le piccole nazioni è arduo e difficile, eppure esso ha ragion d'essere non solo per garantire la preservazione delle radici etniche, storiche e culturali, ma per consentire la fruizione di valori che noi riteniamo importanti non soltanto per noi, ma per l'intera umanità. Per queste ragioni, io credo che occorra coraggio e determinazione a difesa delle nostre posizioni, graduando le proposte e rendendole comprensibili, eque e inattaccabili.
(Applausi)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Salis.
SALIS (I.d.V.). Signora Presidente del Consiglio, signor Presidente della Giunta, signori ex Presidenti del Consiglio e della Giunta, onorevoli colleghi, io penso che, se vogliamo veramente uscire da un'aulica ma vuota retorica della celebrazione di questo sessantennale dovremmo tentare di dare una risposta a quella che è stata l'affermazione proferita da Emilio Lussu subito dopo la promulgazione del nostro Statuto, richiamata dall'onorevole Floris, cioè se ci troviamo ad avere uno strumento che può essere considerato un leone, oppure c'è stato dato veramente a disposizione un gatto.
Badate, io penso che la seconda ipotesi sia la più veritiera per essere sinceri con i sardi a cui dobbiamo rivolgerci anche in questo momento nell'esame dei frutti di una stagione autonomistica che è durata sessant'anni, anche se, e lo dico con preoccupazione, siamo nelle condizioni, signor Presidente della Regione, di dover difendere anche il gatto in questo momento, nel senso che addirittura, paradossalmente, le conquiste importanti che erano previste nello Statuto e che, come lei ha ricordato relativamente alla fiscalità di vantaggio e ai punti franchi, sono ancora da applicare (addirittura non solo quelle conquiste, ma quelle minime che abbiamo già applicato o che le istituzioni sarde hanno già applicato in Sardegna), sono messe in discussione da autorevoli Ministri del Governo nazionale e da forze politiche che fanno altrettanto autorevolmente parte della maggioranza di Governo nazionale e che puntano, con palese evidenza, a eliminare le specialità e tra queste, quella che più ci interessa, la specialità della Sardegna.
Anche perché io debbo fare una specie di controcanto. Non entro nel merito delle cose positive, sarebbe assurdo negare la positività dell'impegno di sessant'anni di attività politica, però, rispetto alle potenzialità che la Sardegna aveva, devo pur dire, per essere completamente sinceri, ripeto, con i cittadini sardi, che l'autonomia sarda, le forze politiche sarde, le istituzioni sarde, non sono state all'altezza del compito. Io porto solamente alcuni esempi, anche per dire che non siamo particolarmente fortunati con le ricorrenze, con le nostre ricorrenze, perché abbiamo festeggiato "Sa Die de sa Sardinia" poche settimane fa, e il giorno prima o due giorni prima che la festeggiassimo, la Sardegna è stata offesa dal mancato coinvolgimento dei sardi e del Presidente della Giunta, che rappresenta i sardi, nella decisione di impedire che in Sardegna venisse svolta la riunione del G8 che era già stata programmata.
Un altro esempio: chi come me proviene dagli enti locali ha sempre affermato, vista la difficoltà di gestire gli enti locali della Sardegna, che non c'è autonomia istituzionale se non c'è autonomia finanziaria. Ebbene, al di là della vacuità di uno strumento qual è la legge sul federalismo fiscale approvato dal Parlamento, che può essere anche una legge di buoni principi su cui concordiamo, ma su cui non c'è la possibilità di capire, in termini di risorse, in termini di vera perequazione, cosa succederà alle Regioni del meridione, cosa succederà alle Regioni più povere della nostra Nazione, abbiamo vinto solo nella scorsa legislatura la battaglia sull'autonomia finanziaria e sulla restituzione di parte dei soldi delle risorse finanziarie che erano state sottratte alla Sardegna e ai sardi, ma in termini di federalismo, di federalismo interno, così come viene definito, solamente ancora nella scorsa legislatura sono stati applicati da questo Consiglio regionale. Non voglio parlare di maggioranze o di opposizioni perché quando si parla di riforme, quando si parla di Statuto, quando si parla di modifica delle regole generali, non si possono richiamare eccessivamente i termini di maggioranza e di opposizione, dobbiamo parlare in termini unitari.
Il ragionamento che noi abbiamo fatto sullo Statuto, signor presidente Cappellacci, come vecchia maggioranza, lo faccio solamente adesso per dire che abbiamo pensato che le riforme vanno fatte assieme, quando noi eravamo pronti ad attivare la procedura di modifica dello Statuto regionale, di cui condividiamo la necessità, e abbiamo proposto di poterlo fare con la Consulta per lo Statuto, cioè un organismo che affiancasse il Consiglio regionale per definire le linee di modifica dello Statuto.
Quella proposta non venne accettata dall'allora minoranza in Consiglio regionale e invece che andare avanti e forzare con le nostre proposte, con le nostre indicazioni, decidemmo che era meglio aspettare perché le riforme vanno fatte assieme. Certo, poi la maggioranza ha diritto di poter decidere se c'è un atteggiamento negativo da parte delle forze politiche di minoranza in Consiglio, ma le posso assicurare, signor presidente Cappellacci, che - per quel che riguarda noi, ma sono sicuro per quel che riguarda tutta la attuale minoranza - non ci sarà assolutamente resistenza a far sì che il nostro Statuto possa essere ammodernato, nella parte che è necessario ammodernare, rafforzato, potenziato e soprattutto applicato integralmente, applicato integralmente! Noi siamo a disposizione per questo lavoro perché siamo convinti che gli strumenti istituzionali, quale può essere una legge di principi come lo Statuto, se intesi modernamente in funzione del servizio che hanno nei confronti dei sardi, sono elementi fondamentali.
Un'ultima questione voglio fare sulla nostra, come dire, sfortuna nelle commemorazioni. Ieri abbiamo avuto un altro esempio dello scarsissimo peso che la Sardegna ha. Ieri sono stati eletti i parlamentari europei e, in un momento in cui l'Europa pesa moltissimo nelle decisioni nazionali, il fatto che non sia stata colpevolmente modificata la legge che definisce la ripartizione dei seggi elettorali per il Parlamento europeo, significa che la Sardegna è stata ancora una volta esclusa dalla rappresentanza in Europa. Questo è un elemento importante, poniamolo con forza questo elemento, poniamolo con forza!
Così come dà il senso del sentimento popolare, nei confronti anche degli strumenti della democrazia, il primato negativo che la Sardegna ha avuto nelle percentuali di adesione al voto. Una protesta che i sardi hanno voluto fare, probabilmente e sicuramente anche per la mancata possibilità, ancora mancata possibilità di elezione di un parlamentare sardo nel Parlamento europeo, ma anche per le debolezze, le difficoltà, il disagio verso una situazione complessiva che ha necessità di interventi immediati, non solo dal punto di vista istituzionale, ribadisco, pur importanti e determinanti, ma anche e soprattutto dal versante della soluzione dei problemi più delicati dei cittadini sardi e in particolare dei ceti più disagiati che a noi guardano con speranza che si sta tramutando in diffidenza. Auguri per i sessant'anni dell'autonomia della Sardegna e soprattutto auguri per i prossimi sessanta.
(Applausi)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Christian Solinas.
SOLINAS CHRISTIAN (P.S.d'Az.). Signora Presidente, signori della Giunta, colleghe e colleghi del Consiglio, autorità civili e militari presenti, Presidenti della Giunta e del Consiglio regionale della Sardegna, è già stato ben detto, ci troviamo qui oggi a due settimane dai tragici fatti di Sarroch costati la vita a tre figli di questa nostra terra ai quali va il nostro sentimento più commosso e per i quali assai opportunamente ella, signora Presidente, ha ritenuto di annullare la convocazione di quest'Aula del 28 maggio scorso per celebrare i sessant'anni della prima seduta del Consiglio regionale della Sardegna. Il 28 maggio 1949, dopo 100 anni dalla fusione perfetta con la quale il Regno sardo, che affondava le radici costitutive della sua storia al principio del quattordicesimo secolo, aveva perduto la propria storica autonomia per divenire una Regione del Regno sabaudo. Dopo 250 anni dall'ultima riunione degli Stamenti del 1698 finalmente il nostro popolo vedeva rinascere nel nuovo quadro statutario regionale un proprio Parlamento e con esso la speranza mai sopita di aver affidate le sorti dell'Isola.
Intervenire dunque in questo dibattito (da non consegnare, sono d'accordo, alla retorica della mera celebrazione), a nome del Gruppo sardista, rappresenta per me un onore del quale avverto per intero la responsabilità perché soprattutto il nome di questo Partito, delle sue origini fin dal combattentismo reduce e militante del primo conflitto mondiale, si intreccia indissolubilmente con l'idea di autonomia. Il Partito Sardo d'Azione, che sia stato o meno, come generosamente lo definì Gobetti, il primo Partito italiano moderno, ha rappresentato per la prima volta la capacità di tradurre il secolare disagio dei sardi in un progetto politico di consapevolezza nazionalitaria finalizzata a risollevare l'Isola dalla sua cronica arretratezza. Fu grazie alle colonne di giornali dei combattenti come "La Voce" a Sassari e "Il Solco" a Cagliari che il dibattito sulla questione sarda abbandonò i salotti di una ristretta élite intellettuale per diffondersi nell'opinione pubblica e nelle coscienze delle masse contadine e operaie e, fin da allora, il fulcro del progetto di rinascita della Sardegna fu la rivendicazione dell'autonomia regionale, principalmente come reazione alla sorda trascuratezza e allo sfruttamento sistematico delle risorse che lo Stato centralista sabaudo aveva perpetrato nel tempo sprofondando l'Isola nell'arretratezza e nel bisogno. Fu Camillo Bellieni sulla lezione di Cattaneo e in particolare sulle riflessioni di Gaetano Salvemini a definire un concetto di autonomia intesa come autogoverno nell'ambito di una riforma democratica dello Stato.
Tutte queste istanze furono riassunte nella primavera del 1921 nel primo congresso ufficiale del Partito Sardo d'Azione che si consolidava, mentre nel resto d'Italia l'esperimento delle forze del combattentismo di costituire il cosiddetto partito del rinnovamento andava fallendo. Dopo la parentesi del ventennio fascista e l'esperienza tragica della guerra, il Partito Sardo d'Azione fu il primo a riorganizzarsi e già nel settembre del 1943 divulgò il proprio programma fondato ancora una volta sui principi dell'autonomia e del liberismo riaffermando l'attualità del sardismo dinanzi alle aggravate condizioni della Sardegna post bellica.
Nel settembre del 1944, accantonata l'istanza separatista di alcuni, venne riaffermata l'aspirazione a un'autonomia e a un'indipendenza alla libertà di iniziativa di commercio e di traffici come fattore fondamentale per la rinascita. Venne rifiutata ogni ipotesi di pianificazione economica di stampo socialista reale e il partito individuò nella difesa della piccola e media proprietà privata la chiave per il rilancio economico. Lo stesso Presidente, e lo ringrazio, ha citato la creazione dell'ESE, dell'Ente elettrico sardo, in contrapposizione alla Società Elettrica Sarda come iniziativa importante di questo autonomismo e tengo a ricordare che fu l'iniziativa proposta dal primo Assessore sardista all'industria. Già dal 1945, fino alla sua definitiva adozione, la storia dello Statuto speciale si interseca pienamente con la nostra storia.
Quando fu nominata la Consulta regionale sarda nel dicembre del 1944 i sardisti la sollecitarono a porsi come organo di autogoverno locale e come elaboratrice del progetto di autonomia speciale. La Consulta incaricò proprio il Partito Sardo d'Azione della redazione del progetto cui lavorò soprattutto l'avvocato nuorese Gonario Pinna. Lo schema, già pronto alla fine del 1945, non fu però discusso dalla Consulta che aspettava di confrontarlo con altri Statuti speciali e quando, sotto la minaccia del separatismo siciliano e poco prima della consultazione del giugno 1946, la Consulta nazionale rapidamente discusse e approvò lo Statuto speciale per la Sicilia, Lussu intervenne allora sia presso la Consulta nazionale, di cui faceva parte, sia presso quella sarda, sollecitando che lo Statuto siciliano venisse immediatamente esteso alla Sardegna. Egli comprendeva bene che era meglio porre la Costituente di fronte al fatto compiuto di una ben definita e larga autonomia come era quella siciliana, ma per un malinteso senso di orgoglio la Consulta sarda respinse il suggerimento.
La Consulta regionale presentò invece il proprio schema di statuto elaborato dall'apposita commissione che venne discusso nella seduta speciale del 30 e 31 dicembre del 1946, presenti per l'occasione anche i deputati sardi all'Assemblea costituente. In un appassionato intervento, Lussu dichiarava di rinunciare al proprio federalismo per ottenere un'autonomia che desse una vasta capacità di competenze primarie all'istituto regionale che doveva combattere il sottosviluppo e l'isolamento della Sardegna, ma la discussione sullo Statuto si protrasse a lungo e il progetto fu presentato alla Costituente che doveva ancora discutere e approvare gli altri statuti speciali.
L'autonomia non è e non può essere un concetto immobile, sospeso nel tempo. Va continuamente reinterpretata nel contesto storico, sociale ed economico della storia. E voglio dire, riprendendo le parole di Simon Mossa, consentitemelo, che occorre render cosciente il popolo sardo che fa parte di una Nazione a se stante e con caratteri specifici, tali da darle il diritto di battersi per conquistare nel tempo la sua indipendenza nazionale. Il che non vuol dire separatismo ma reinterpretazione in chiave moderna delle storiche istanze autonomistiche della nostra tradizione. Ancora con parole di Simon Mossa: "… e poi dobbiamo cominciare a contrapporre all'uso e all'abuso indiscriminato dell'aggettivo 'regionale'…" - che fanno in tanti, sardi e italiani - "… per definire l'autonomia della Sardegna, ben altre aggettivazioni. E cioè aggettivazioni, quali: 'decisoria', 'decisionale', 'linguistica', 'culturale', 'politica', 'finanziaria', 'economica'… e poi di autonomia federale…". Non è una questione nominalistica ma sostanziale e non proviamo alcun timore nell'utilizzare, per definire tali contenuti e ringraziamo per questo anche il presidente Cappellacci che ne ha dato atto, il termine "indipendenza".
A sessant'anni dallo Statuto di autonomia e dalla prima seduta di questo Consiglio regionale è davvero il tempo di richiamare il popolo sardo a scrivere un nuovo patto sociale mediante lo strumento partecipativo dell'Assemblea costituente che abbiamo condiviso programmaticamente con le forze della coalizione che ha vinto le ultime elezioni regionali e che andrà confrontata con tutte le forze politiche e sociali sarde.
A questo tema non possono non connettersi le questioni della lingua e della cultura sarda. Ancora tratti da Simon Mossa assai lucidamente osservati, come l'inibizione della lingua e della cultura locali sin dall'infanzia, hanno affievolito nei sardi la fiducia in se stessi, lo spirito di iniziativa, il legame tribale che ha costituito la forza di una società che si è conservata nei millenni. Affinché lo spirito di noi sardi si risvegli sul piano della cultura moderna, la scuola non può che essere sarda, luogo del parlare e insegnare anche in lingua sarda, del professare la lingua come prima lingua nazionale dei sardi nell'Isola alla quale succede per scelta anche quella italiana. Questi temi sono patrimonio comune dei sardi, non sono una mia autonoma riflessione, sono patrimonio dell'intero quadro politico e lo si rinviene in molteplici testimonianze, soprattutto nei carteggi privati in realtà, non tanto nelle esternazioni pubbliche dei singoli politici.
In particolare mi piace citare il carteggio tra Emilio Lussu e Renzo Laconi. Da questo carteggio, recentemente pubblicato, vorrei trarre un breve passo di una lettera che Lussu intitolò "Quel mezzo statuto" indirizzata proprio al deputato del P.C.I. Renzo Laconi, egli scrisse: "Io non sarei guarito dal sardismo? Ti auguro che possa finalmente riuscire a capire che cosa è il sardismo, senza di che è inconcepibile oggi un movimento popolare nell'Isola, e che butti alle critiche borghesi e nazionaliste quel tuo persistente anti autonomismo che già ti ha fatto commettere non pochi e non lievi errori politici:...". Ancora: "… io ho ragione di ritenere, e mi permetterai che te lo dica, che sei ancora rimasto un giovane intellettuale di questa generazione, che non è ancora riuscita a guarire da quella forma di nazionalismo in cui anche i migliori hanno abbondantemente e inconsapevolmente bevuto negli anni passati". Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, grandi e nuove sfide ci attendono, dinanzi a queste già ampiamente tracciate dagli interventi che mi hanno preceduto e che non voglio ripetere, dalla zona franca alla continuità territoriale, vorrei concludere, se me lo consente, Presidente, con un monito di Simon Mossa che costringerà tutti a riflettere: "Le finzioni sono finite, i miti non possono più nascondere la verità, una nazione sarda con la propria sovranità è diventata l'unica strada che, ai giorni nostri, può portare a una cooperazione fruttuosa non solo tra la Sardegna e l'Italia, tra il popolo sardo e l'Europa, ma con tutto il resto del mondo".
(Applausi)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare la consigliera Zuncheddu.
ZUNCHEDDU (Comunisti-Sinistra Sarda-Rosso Mori). Saludu su Governu de sa Sardigna e totus is sardus benius a intendi pagus noas a pitzus de sa Autonomia. Le cosiddette classi dirigenti sarde guardarono sin da subito all'autonomismo moderno ed emergente della rivoluzione angyoiana, alla fine del 1700, con la vista alterata dallo strabismo perenne. Teorizzarono senza vergogna questa loro alterazione visiva pronunciando e diffondendo una loro famosa massima che le voleva "fedeli al Re, non infedeli alla Patria sarda". In questa massima, quasi un principio etico e culturale, può essere racchiusa la storia di circa 200 anni dell'autonomia della Sardegna e di tutti gli autonomisti sardi, compresi i dirigenti del Partito Sardo d'Azione che, quanto a strabismo, non sono stati certo gli ultimi.
Naturalmente non ci sfugge che la moderna autonomia non è che un miagolio di un gattino esangue, inabile a confrontarsi con il ruggito del leone dell'indipendenza nuragica, aspettativa di liberazione nazionale, di autogoverno di un popolo. Indipendenza nuragica che non aveva bisogno di alcuno Stato per reggersi, perché la sua potenza era costituita dalle decine di migliaia di comunità di villaggio, autonome, sovrane e collaboranti all'interno di una confederazione capace di governare tutta l'Isola e che si rappresentava verso l'esterno, certamente verso l'Egitto delle piramidi, e la Grecia fortificata, con il sistema simbolico, unico al mondo, di più di 10 mila nuraghi e altri monumenti megalitici.
L'indipendenza nuragica assicurò, per più di mille anni, la pace e l'amicizia con i popoli vicini, la collaborazione piena e senza riserve tra le popolazioni isolane e la grande e generosa natura, ovvero le comunità delle piante e degli animali. In questo modo, essa indipendenza, favorì l'affermarsi di una società dell'abbondanza, ma non dello spreco, vale a dire la prosperità condivisa. E ciò senza doversi impegnare nella elaborazione di strategie economiche truffaldine e fragilissime, e senza dover sopportare l'ossessione di un PIL, quasi sempre latitante. Per difendere l'indipendenza nuragica e ritardare il brutto incontro con la storia, "le mal encontre", i sardi hanno dovuto combattere circa 600 anni di guerre, guerriglie, insurrezioni, imboscate, rapine e altro, dal 500 circa a.C, fino alla cimiteriale pacificazione romana.
Poiché gli unici popoli felici sono i popoli senza storia, così come sostiene un acuto filosofo francese, da allora noi Sardi non siamo stati mai più felici e abbiamo sempre sofferto della perdita della nostra età dell'oro, ma abbiamo anche sempre continuato a combattere, se non per l'indipendenza, certamente in nome dell'indipendenza. Già Amsicora, il grande proprietario e armentario sardo, abbondantemente punicizzato, tentò di riparare il danno dell'occupazione straniera offrendo ai sardi delle montagne, a nome dei punici, una semi indipendenza, una sorta di autonomia, se fossero intervenuti a combattere contro i romani. Non se ne fece niente, a sconfitta si aggiunse nuova sconfitta. I primi autonomisti subirono l'orrore del suicidio. La tela punica dell'autonomia fu stracciata prima che riuscisse a coprire qualcosa.
Poi toccò alle Istituzioni giudicali dell'Arborea inalberare la bandiera dell'indipendenza dell'Isola, ma il sogno - sostenuto da ambigue formazioni statuali - fu presto affogato nel sangue della collina de Su Boccidroxu di Sanluri. Neanche il disegno di Giovanni Maria Angioy di una repubblica giacobina sarda ebbe sorte migliore, poiché si concluse con una rivoluzione abortita, col doloroso esilio dell'autore e col massacro di un gran numero di patrioti giacobini e moderati. Mentre non ebbe seguito il moto indipendentista, ben dotato di capi e di armati, scoppiato intorno al 1920 nel sassarese, in quanto fu riassorbito dal nascente Partito Sardo d'Azione. Alcuni atti di grande indipendenza furono compiuti dai sardi proprio in assenza di strutture statuali autoctone. Il primo fu la stipula, nel 752, di un patto di pace tra arabi e sardi, a base di gisyah (significa "ricompensa" in lingua araba), che era un tributo collettivo a cui si sottoponevano i cristiani in cambio di una franchigia per l'esercizio del commercio e dei culti religiosi. Ma i sardi, chi? Uno Stato indipendente di cui non abbiamo notizia o, più probabilmente, una rete di comunità tornate a nuova vita dopo secoli di sopraffazioni? Il secondo, meno di 70 anni dopo, fu la delegazione di maggiorenti sardi in visita, in quel di Francoforte sul Meno, a Federico il Pio, Re dei Franchi e figlio di Carlo Magno, col quale trattò i problemi della sicurezza del Mediterraneo. Delegazione, di chi? Delle stesse comunità cui abbiamo appena fatto riferimento?
I sardi dunque hanno sempre esercitato, ogni volta che è stato possibile, il diritto all'indipendenza, ed è proprio tale lungo e continuo esercizio che ne costituisce il fondamento morale. Principio oggi messo in maniera subdola in discussione dai leader di centrodestra italiano, con un feroce attacco alla cosiddetta specificità regionale e allo Statuto speciale, e sostenuto con complicità dai sodali sardi che, con una velenosa riforma dello Statuto, di fatto vogliono i sardi sempre più limitati, assoggettati e privi di qualsiasi processo di autonomia reale, di autodeterminazione e di autogoverno. Presidente, mi scusi, ma c'è un brusio insostenibile!
PRESIDENTE. Ha ragione, onorevole Zuncheddu. Prego i colleghi di riprendere il proprio posto.
ZUNCHEDDU (Comunisti-Sinistra Sarda-Rosso Mori). Grazie Presidente. Ora tocca a noi, ultimi autonomisti, autonomisti già scaduti o in inesorabile scadenza, tocca a noi issare la bandiera dell'indipendenza della Sardegna sopra l'immensa torre di macerie, di veleni e di residui, accumulata nell'isola durante il passaggio travolgente della modernità. Le macerie dell'ente autonomistico, da sempre maldestro nel raccogliere le aspirazioni popolari, e trasformatosi in una succursale d'affari, o in monte di pietà poco soccorrevole, o in uno "stipendificio". E variamente mescolati a esse vi sono i residui degli antichi partiti politici, delle loro ideologie, dei loro programmi e propositi. Le rovine industriali ampiamente previste, dell'industria mineraria prima e di quelle petrolchimiche dopo, segnate da una processione di croci che si fa ogni giorno più lunga e che arriva alle nostre porte accompagnata dal corteo larvale dei sindacati un tempo gloriosi. Ma non mancano nemmeno le rovine, le reliquie, delle nostre più profonde tradizioni economiche e sociali, della cultura tutta centrata sul valore incancellabile dell'uomo, della lingua sarda, capace di esprimere il pensoso o ironico distacco dell'uomo sardo dall'impervia realtà del mondo. Chi dunque avrà il coraggio e la forza di innalzare la bandiera dell'indipendenza sopra lo scenario dell'inondazione modernista? Perché questo è il panorama di un luogo che ha già avuto lo sviluppo, in cui lo sviluppo è stato quello che abbiamo conosciuto e che non poteva essere diverso, e in cui soprattutto non ci potrà più essere alcuno sviluppo. Dobbiamo, in altre parole, alzare la bandiera dell'indipendenza nei territori calpestati e scompaginati dallo sviluppo, nei territori cioè del dopo-sviluppo. Dovremmo parlare di decrescita, ma in altra occasione.
E' abbastanza chiaro che dobbiamo rapidamente inventarci, con le nostre mani e la nostra intelligenza, forme e organizzazioni di merci (direi meglio di beni) e servizi per provvedere non a nuovi accumuli di ricchezza bancaria, ma per creare una nuova prosperità sicura e condivisa. Dobbiamo pensare a ridisegnare il profilo di una nuova società sarda che mai è stata una cosiddetta società di massa, come quella malformata di adesso, ma una società di comunità, una rete ricca e varia di paesi e villaggi. Soprattutto dobbiamo dare nuove basi e prospettive, altra organizzazione e reale riferimento all'impegno politico e sociale della gente. Una fase della vicenda dei Sardi si è ormai chiaramente e definitivamente chiusa. La tela punica ordita da Amsicora è stata disfatta, di giorno e di notte, da una qualche Penelope. Si è chiusa la fase dell'autonomia regionale, di quella formula cioè in cui le menti più generose avevano sperato di poter raccogliere e condensare l'aspirazione millenaria dei sardi alla riconquista della libertà collettiva e in effetti… posso andare avanti perché ho perso tempo…
PRESIDENTE. Prego onorevole Zuncheddu.
ZUNCHEDDU (Comunisti-Sinistra Sarda-Rosso Mori). Grazie. In effetti l'autonomia regionale, per di più speciale e costituzionalmente rilevante, avrebbe dovuto aumentare i diritti dei Sardi sia in quanto individui che in quanto collettività, avrebbe dovuto dare loro mezzi e poteri per esprimere meglio le loro propensioni e decisioni. Avrebbe dovuto restituirci le nostre capacità e tradizioni di autogoverno. Avrebbe dovuto, in altre parole, renderci più attivi e intelligenti. Ma non è andata così, anzi è andata proprio male, invece di stimolare le propensioni all'autogoverno, com'era per esempio negli auspici di Emilio Lussu, in cui spesso autonomia e autogoverno venivano quasi considerati sinonimi, la Regione ha fomentato la deresponsabilizzazione della gente e l'assistenzialismo paralizzante.
Se vogliamo dare uno scopo alla nostra esistenza di consiglieri regionali, se vogliamo salvare quel che resta dell'autonomia, non dobbiamo fare altro se non procedere speditamente verso la realizzazione dell'autogoverno popolare secondo le regole della nostra più antica tradizione; in primo luogo, perché ogni uomo deve avere garantito il diritto a vivere nella propria comunità o in quella di elezione E, in secondo luogo, perché, una volta appurato che l'istituto autonomistico non è più luogo, se mai lo è stato, in cui prende forma la volontà collettiva dei sardi, si deve favorire la ricomposizione degli ambiti in cui tale volontà collettiva si è tradizionalmente e secolarmente espressa, che sono le comunità di paese e di villaggio, nonché le comunità rionali delle città grandi e piccole.
Alle forme della rinascente volontà comunitaria, questo Consiglio regionale, se non vuol essere soltanto una insignificante appendice burocratica dello Stato, deve assicurare, almeno nella fase d'avvio, l'assistenza tecnica necessaria, le procedure per la formazione ed espressione della volontà. Deve concorrere a definire, in altre parole, la fisionomia politico-giuridica delle comunità, i diritti di partecipazione e intervento negli atti più importanti dell'istituto di autogoverno, a cominciare dai bilanci e dall'attribuzione degli incarichi più rappresentativi.
(Applausi)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Vargiu.
VARGIU (Riformatori Sardi). Signor Presidente della Regione, signor Presidente del Consiglio, Assessori, colleghi consiglieri, noi Riformatori vorremmo iniziare il ragionamento di oggi ricordando il motivo per cui questa seduta si tiene con dieci giorni di ritardo, rispetto a quello che era preventivato, cioè vorremmo ricordare le vittime della SARAS e vorremmo ribadire che questo Consiglio le ha ben in mente e le avrà ben in mente nel proseguo del suo lavoro futuro di questa legislatura. Cercheremo, noi Riformatori, di fare lo stesso sforzo che è stato fatto dagli altri colleghi nel corso di questa seduta, una delle tentazioni cui spesso noi cediamo durante le celebrazioni è il rischio sia di fare autocelebrazione, sia di rileggere pezzi di storia e di assecondarli al nostro ragionamento politico del contingente. Forse questa non è una cosa intelligente da fare, bene hanno fatto i colleghi che si sono astenuti da questo rischio, che sono stati lontani da questo rischio.
Anch'io come loro, nel predisporre alcune riflessioni per oggi, ho provato a rileggere, perché non li avevo mai letti e perché è stato utile leggerli, i resoconti di quelle sedute della fine degli anni '40, devo dire che è stato utile leggerli perché sicuramente nelle frasi, nei ragionamenti, nelle idee che venivano proposte in quel Consiglio regionale così lontano, materialmente e temporalmente, dal nostro, hanno qualche risonanza anche riportata ai giorni di oggi. Due sentimenti forti traspaiono nella rilettura dei commenti di quei giorni, cioè gli impegni che il Presidente della Regione e il Presidente del Consiglio (entrambi neoeletti in quella seduta del 31 maggio 1949) ponevano erano: uno, l'impegno per il benessere della loro terra e l'altro l'impegno per la coesione dei sardi.
Ecco, forse una delle riflessioni più interessanti, sessant'anni dopo, è quella relativa alla verifica di ciò che, negli impegni per il benessere e per la coesione, in quei giorni veniva ripetuto all'interno di un'Aula diversa dalla nostra in cui il numero dei consiglieri era 60 (può essere una cosa interessante per coloro i quali pensano come noi che sia utile riportare a un numero più adeguato il Consiglio regionale); tra le parole che venivano ripetute in quei giorni c'erano delle somiglianze forti con quello che noi possiamo dire oggi e delle diversità. Le somiglianze: anche la Sardegna di quei tempi era una Sardegna piena di contraddizioni, era una Sardegna piena di povertà, era una Sardegna che cercava di risollevarsi dalle gravi ferite che la guerra aveva inferto all'intera Isola. La mia città, Cagliari, in particolare, una città distrutta per il 70 per cento dalle bombe che le erano piovute addosso, una città per la quale addirittura ci si poneva il problema se sarebbe potuta essere nuovamente la capitale della Sardegna perché le distruzioni della guerra erano state talmente tante e talmente gravi che facevano pensare che fosse difficile persino risollevarsi e rinascere come città.
Se voi ci pensate, tante di quelle sofferenze che il tessuto sociale della Regione sarda viveva allora, forse sono visibili anche adesso quando noi abbiamo un numero di poveri censiti che tende a essere tra i più alti in Italia, un numero di disoccupati che preoccupa chiunque sieda all'interno del Consiglio regionale. Forse più di noi preoccupa i genitori e le famiglie che hanno disoccupati in casa.
Però c'è anche una grande diversità se voi leggete quelle parole rispetto a oggi, una grande diversità, come anche nelle parole del Presidente del Consiglio, vedi i cambiamenti forti e radicali che la Sardegna, il tessuto economico e quello sociale hanno avuto in questi sessant'anni, sicuramente il nostro benessere è andato avanti di molto secondo quella direzione che i nostri progenitori, i nostri precursori nel Consiglio regionale auspicavano. Però c'è una differenza sostanziale, se voi leggete le parole, cioè costantemente veniva posto in quelle parole il problema della Sardegna nei confronti dell'Italia, è stato ricordato da chi ha citato i pezzi della nostra storia. Il problema era come la Sardegna si sarebbe dovuta relazionare con l'Italia; oggi, se voi ci pensate, il problema è completamente diverso, nel senso che noi non abbiamo più l'idea di come relazionarsi con l'Italia, noi - attraverso la globalizzazione - abbiamo un problema completamente diverso, dobbiamo cercare di capire qual è l'identità che la Sardegna deve avere nel mondo.
Noi dobbiamo cercare di comprendere qual è il nostro futuro nel mondo, forse sessant'anni fa questo non era altrettanto chiaro perchè si usciva da una guerra devastante per tutto e per tutti, ma oggi noi siamo parte di quel piccolo pezzo di mondo che è fortunato rispetto al resto del mondo. Noi siamo parte di quella società occidentale, della quale forse non teniamo il passo, che forse oggi manifesta più che in altri tempi una forte crisi strutturale, soprattutto nella sua economia, però noi siamo un pezzo del mondo ricco, quindi siamo un pezzo del mondo che deve garantire a se stesso il mantenimento, oltre che il miglioramento delle proprie condizioni di sviluppo, delle proprie condizioni buone complessivamente garantite a chi in questa parte di mondo nasce, vive e risiede.
Ecco questo è il nostro problema del domani, garantire la forza della nostra identità in un contesto di mondo globalizzato dove soltanto la nostra identità ci può far sperare di avere sviluppo, nel senso che è la nostra identità che ci farà vendere il nostro turismo, i nostri prodotti agricoli, i nostri prodotti artigiani, è la nostra identità che sarà attrattiva nei confronti delle imprese. Perché bisogna venire in Sardegna? Non certo perché ci sono condizioni economiche di sviluppo migliori, per noi è tutto peggio che da altre parti. Quando dobbiamo importare la materia prima e, lavorata, dobbiamo riportarla da un'altra parte del mondo, è evidente che non abbiamo un vantaggio nella nostra insularità. Il vantaggio dell'insularità ci può essere consentito soltanto se noi riusciamo a investire davvero sull'identità che dall'insularità discende, da tutti quei pezzi di storia che voi avete brillantemente "riraccontato" a quest'Aula, ma che, se non diventano una parte importante della nostra comunicazione col mondo, sono soltanto destinati a essere autocelebrati nelle aule di storia della Facoltà di lettere o all'interno del Consiglio regionale una volta ogni sessant'anni.
L'identità che ci serve nella globalizzazione non è ciò che noi riteniamo di essere, l'identità nostra è quella che riusciamo a vendere, quella che riusciamo a comunicare, è il modo in cui riusciamo a essere riconoscibili nel mondo, quindi non è soltanto ciò che siamo e solo noi sappiamo che lo siamo, ma ciò che siamo in grado di far capire agli altri che siamo, ciò che siamo in grado di comunicare agli altri che siamo. Ecco, questa è la nostra grande sfida, la nostra grande sfida che sicuramente va avanti attraverso un nuovo Statuto, è stato ricordato dal Presidente della Giunta regionale in modo brillante, e sicuramente attraverso la definizione di un progetto di sviluppo. Un progetto di sviluppo per il quale probabilmente vale quello che il presidente Crespellani disse nella prima riunione del Consiglio regionale, una volta nominato Presidente; cioè il presidente Crespellani si disse "sgomento per l'incarico", ossia sovrastato dalle dimensioni dell'incarico che gli era stato attribuito.
Ecco, io credo che l'intero Consiglio regionale oggi debba avere, perché è utile, lo stesso sentimento: noi dovremmo essere sgomenti per l'incarico, renderci conto della dimensione dell'incarico che stiamo ricevendo e forse in questo modo saremmo in grado di attivare ciò che in Sardegna è sempre difficile attivare, cioè quella coesione che è indispensabile per avere un progetto di sviluppo che sia comunque unitario e che ci consenta di comunicare al mondo l'identità della Sardegna.
(Applausi)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Felice Contu.
CONTU FELICE (U.D.C.).Onorevoli Presidenti, autorità, colleghi, come prima mia impressione, nell'accingermi a celebrare l'anniversario del sessantesimo anno della nascita di questo Consiglio, vorrei esprimere la considerazione che sei decenni, per qualunque istituzione, quindi anche per la nostra, sono effettivamente molti, e sono molti anche per l'uomo, anche per uno come me che ha avuto il raro privilegio di essere stato presente nella seduta del 28 maggio del 1949. Non ironizzate, non ero ancora consigliere regionale, lo sono diventato dopo, però ero uno dei giovani funzionari del Consiglio regionale sardo, eravamo in otto o in nove mi pare, non di più, ricordo qualche collega, ricordo il Segretario generale dell'epoca, che era un veneto, un certo dottor Salotto se non ricordo male, e ricordo anche i colleghi, ne voglio parlare perché così rimangono agli annali di questa Assemblea: Marco Diliberto, Michelangelo Pira, Virgilio Lai, Antonio Garau e altri che mi sfuggono in questo momento.
Bene, io penso di aver vissuto, in quella veste, avvenimenti che ora magari, a distanza di sessant'anni, sembrano quasi un mito. Siamo quasi entrati nel mito, ma furono invece l'inizio di una lunga e gloriosa storia, quella dell'autonomia della nostra Isola. Quindi, vale la pena, io credo, anche a costo di sembrare l'ultimo dei garibaldini, l'ultimo dei reduci delle patrie battaglie, che io faccia un po' di "amarcord", perché a volte anche il ricordo del passato è sempre una stella polare per percorrere l'avvenire. Consentite quindi che io ricordi anche i colleghi dell'epoca, li ricordo benissimo, ricordo soprattutto la commozione (l'ha citato mi pare la nostra Presidente) del decano dell'epoca, quello che mi ha preceduto, il venerando Amicarelli, che non era neanche sardo, mi pare che fosse abruzzese o molisano, ma era talmente entusiasta che parlò proprio dell'avvento dell'autonomia come del nuovo risorgimento del popolo sardo. Ricordo anche gli altri colleghi dell'epoca, l'eloquenza soprattutto di quei colleghi, ricordo l'avvocato Gavino Asquer, ricordo il professor Dessanay, ricordo Crespellani, Cerioni, Anselmo Contu, che fu il primo Presidente, l'avvocato Alfredo Corrias, dovrei citarne tanti ma qui mi fermo.
Quello che più mi colpì, allora ero molto giovane, avevo 21 anni, credo, ero giovane laureato, e che più voglio ricordare è la dignità di quella Assemblea, la forma. Vedete, qualcuno potrà anche sorridere, ma io ricordo che quando il Presidente del Consiglio regionale entrava in Aula, i consiglieri regionali che erano seduti si alzavano in piedi e non si sedevano se il Presidente del Consiglio regionale non si sedeva, tale era il rispetto per l'istituzione; voi direte che questa è forse bolsa retorica, può essere, ma, cari amici e colleghi, io credo che la forma qualche volta sia anche sostanza e pertanto anche la forma qualche volta va osservata.
Io penso che le sensazioni (voglio raccontarvene qualcuna perché è bene che ci sia una testimonianza di quell'epoca) che provavamo in quell'epoca, contrariamente a quello che si possa pensare, non erano poi di grande entusiasmo: l'entusiasmo era di pochi, invece nella moltitudine c'era quasi l'indifferenza, anzi forse la parola è sbagliata, quasi l'incredulità sul nuovo istituto, si pensava che questo istituto fosse provvisorio, stranamente nessuno voleva fare il dipendente della Regione, cosa che oggi sembrerebbe anacronistica ma allora era così, la Regione nasceva senza bilancio, senza mezzi, mi ricordo che c'era una sola automobile a mezzadria tra il Presidente del Consiglio regionale e il Presidente della Giunta regionale. Così però iniziò questo lungo cammino dell'autonomia. Arrivati a questo punto, noi dovremmo anche chiederci, perché sarebbe giusto che ce lo chiedessimo, io per primo, se abbiamo disatteso le aspettative dei sardi, se siamo cioè stati capaci di fare quello che i sardi si aspettavano da noi. E' una domanda difficile anche se mi sento di poter dire che, dopo tanti decenni di autonomia, molte conquiste sono state fatte. Io non dimenticherò mai i Piani di rinascita, che ora magari, col senno di poi, possono sembrare forse inefficaci e inefficienti, voglio ricordare la riforma agropastorale, voglio ricordare l'industrializzazione, tutti traguardi che portavano alla modernizzazione della nostra Isola.
Io credo che nessuno, neanche allora, nel 1949, abbia mai concepito l'autonomia come un miracolo, no, l'autonomia veniva concepita come una premessa, come qualche cosa che poteva essere lo strumento, forse l'obiettivo finale, ma nessuno ha mai pensato all'autonomia come miracolo. Quindi, in questa autonomia noi dobbiamo credere, in quest'autonomia noi dobbiamo sperare perché l'autonomia è stato il primo momento del riscatto del popolo sardo.
Cari amici, non voglio tediarvi, perché forse sto parlando più di me e del passato che non del presente, ma io posso dire che il passato, come ho detto all'inizio, è sempre maestro per quanto riguarda il futuro. Allora io dico che la nostra Sardegna ha ancora molta strada da compiere, il nostro Presidente ha fatto un appello, ricordando le parole del primo Presidente dell'Assemblea Anselmo Contu che appunto diceva che tutti abbiamo una bandiera particolare, perché apparteniamo a diversi partiti, però ha anche affermato il principio che esiste un'unica bandiera che è la Sardegna. Anche nel discorso di insediamento di questa Assemblea, io non ho mancato di ricordare a tutti noi che, nelle differenze, che pure abbiamo, tuttavia dobbiamo necessariamente essere uniti, manca, ecco a me sembra che manchi, il pathos, l'entusiasmo di un'epoca, siamo diventati forse più pragmatici, più razionali, ma è necessario a volte anche uno slancio, buttare il nostro cuore al di là della barricata, perché soltanto così si può riuscire ad affermare il principio della Sardegna che va avanti, della Sardegna che conquista le mete, che è giusto che debba conquistare.
Cari amici, non voglio tediarvi oggi oltre, voglio concludere perché il tempo è sempre molto ristretto, dirò solo due parole conclusive: noi sardi siamo abituati alla resistenza, noi abbiamo resistito a crisi gravissime, non ci deve spaventare neanche la crisi odierna, questo valore della resistenza così caro a un mio carissimo amico, il professor Lilliu, che parla sempre di resistenza del popolo sardo, questo valore che noi abbiamo insito tra di noi, mi sembra che si sia affievolito però, come un fiume carsico che si inoltra nelle viscere della terra, poi riappare nuovamente impetuoso, più forte di prima. Credo che anche questo sentimento dovrà riaffiorare e dovrà nuovamente primeggiare nelle nostre battaglie.
(Applausi)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Gian Valerio Sanna.
SANNA GIAN VALERIO (P.D.). Signor Presidente, onorevoli colleghi, dopo tre mesi circa dall'inizio della legislatura, siamo qui a festeggiare il compleanno del Consiglio regionale; tuttavia non vorremmo che troppe solennità possano travolgere questa Assemblea su una china scivolosa e fatale, verso una propensione alla contemplazione storica che non si addice né al contesto né al momento che attraversiamo. Il primo Consiglio regionale è stato da qualcuno definito culla dell'autonomia; la domanda che ci viene spontanea è se è ancora una culla il Consiglio regionale per l'autonomia, o il bambino ovvero l'autonomia rischia un silenzioso soffocamento. Dove siamo, dove andiamo sessant'anni dopo? Non è neanche pensabile che l'autonomia di sessant'anni fa sia ancora quella che possiamo declinare oggi; l'autonomia di oggi è una cosa diversa che va declinata nei tempi e nei contesti nei quali ci troviamo a operare, noi stessi abbiamo difficoltà a interpretare la mentalità, le vocazioni dei nostri figli, che appartengono a un'altra generazione, non esiste neanche per l'autonomia l'idea di poterla coltivare allo stesso modo e con gli stessi termini con i quali i nostri padri l'hanno declinata.
Vedete, io credo che l'attuazione dell'autonomia della Sardegna consista nell'attuazione di un disegno avanzato di federalismo che purtroppo la classe politica nazionale non ci aiuta a realizzare perché nessuno, da qualunque parte provenga dal punto di vista politico, intende perdere l'egemonia che deriva dall'esercizio del governo. Si parla spesso delle altre autonomie invocate come esempi, come punti di riferimento. L'autonomia della Catalogna, spesse volte richiamata nei nostri discorsi, dipende esclusivamente da una legge ordinaria dello Stato, una legge ordinaria priva di garanzie che lo Stato può modificare in qualsiasi momento, eppure non lo fa, perché è forte l'autonomia laddove superano le appartenenze politiche e definisce un popolo che è rispettato e riconosciuto per altri principi identitari, per altra considerazione culturale, che noi non abbiamo saputo realizzare in questi anni, né ci possiamo sottrarre a osservare con severità, rispetto all'operato di noi stessi, che bene o male siamo oltre vent'anni che parliamo di rivedere il nostro Statuto.
Ne parliamo da vent'anni, in dieci anni non siamo stati capaci di fare una legge elettorale per la Sardegna e abbiamo speso un'intera legislatura in un dibattito inutile su "Assemblea costituente sì", "Assemblea costituente no". Credo che i poteri e le opportunità di operare ci siano, sono scritte, dobbiamo solo avere il coraggio di saperle perseguire senza ripercorrere o ricalcare i sentieri già attraversati; all'indomani della crisi del 1929, in un dopoguerra difficile, la Sardegna, all'inizio dell'autonomia, com'è stato ricordato, si è trovata di fronte al processo di rinascita e di fronte a un bivio: scegliere la strada di uno sviluppo indotto, prodotto dal Governo nazionale, oppure - come sosteneva la classe economica americana - poteva scommettere sulle proprie risorse locali, sulle proprie capacità di far elaborare un progetto di crescita e di rinascita interno alla Sardegna. In quella fase, fu scelto la seconda. Credo che oggi, in modo diverso, siamo di fronte allo stesso bivio, se scommettere su un rapporto o sull'impostazione della nostra autonomia tutta incentrata su una visione economicistica dell'autonomia, oppure puntare verso una visione centralista, ma centralista della Regione rispetto allo Stato e all'Unione Europea e basata su valori importanti, moderni, quelli del territorio, quelli della cultura, dei valori identitari e anche su una visione multietnica, cioè passare da una concezione del nostro Statuto, prettamente rivendicazionista sul terreno economico, a una visione più ampia di tutela integrale di un popolo che si riconosce in valori più ampi e più complessi.
Il presidente Floris, che presiede autorevolmente la prima Commissione, non ha mancato puntualmente, anche all'inizio di questa legislatura, di richiamarci all'esigenza di operare immediatamente sul versante della rivisitazione dello Statuto. Abbiamo, un po' tutti quanti, dovuto rallentare questo percorso perché le forze politiche hanno bisogno di approfondire, hanno bisogno di valutare, hanno bisogno di decidere. Credo che noi non andremo molto lontano se non riusciremo a compiere quello che diceva l'onorevole Contu poco fa, il superamento delle nostre appartenenze rispetto al primato dell'autonomia, questa grande dipendenza dai canali politici delle nostre appartenenze che soffoca e controlla il nostro operato, e se non riscopriremo quella capacità di rimuovere i blocchi che impediscono il dipanarsi e lo svolgersi della nostra stessa autonomia, quella che abbiamo oggi, blocchi legislativi, le lunghe procedure sulle norme di attuazione, la decretazione di urgenza e gli interventi straordinari, che la Sardegna subisce, lo stesso ruolo della Corte costituzionale che, all'inizio, sembrava dare dei segnali di rispetto e di valorizzazione del regionalismo, ma che invece poi ha immediatamente modificato il suo atteggiamento nei confronti dell'autonomia e della specialità, diventando un elemento di rallentamento delle prerogative dell'autonomia, per non parlare delle impugnative consecutive continue del Governo sulle leggi della Regione. Queste sono le strade crescenti delle restrizioni dell'autonomia, che bisogna rimuovere con un'iniziativa unanime, unitaria, responsabile, anche con la capacità di chiamare a un tavolo di confronto il Governo sulla capacità di accogliere un percorso di rivisitazione della nostra autonomia in chiave moderna.
La specialità doveva essere, in quegli anni, l'utopia del regionalismo. Io credo che rimanga ancora tale, se saremo capaci di usare questo nostro compleanno per farci degli auguri e trasformare le celebrazioni in cose utili, immaginare progresso e prosperità per il futuro con un po' meno di reminiscenza storica e più idee nuove e moderne capacità di uscire da retoriche e da inoperosità. Bisogna essere in fondo un po' dei riformisti operosi, dovremo recuperare la specialità prima di tutto di noi stessi e disporre le nostre energie a rendere moderna e avanzata la nostra Regione e il nostro Consiglio, evitando omologazioni alle cose che fanno altri e avendo la capacità di essere originali e unici come ci chiede la nostra specialità.
(Applausi)
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Mario Diana.
DIANA MARIO (P.d.L.). Signor Presidente del Consiglio, signor Presidente della Regione, colleghe e colleghi, autorità presenti, sono d'accordo sul fatto che troppe reminiscenze storiche, probabilmente, in una giornata come questa, possano in qualche maniera sminuire una solennità, che va comunque ricordata. Però un passaggio di tipo storico lo voglio fare, e lo faccio leggendo un brevissimo passo che è frutto di alcune ricerche, ma certamente non c'era bisogno di impegnarsi troppo per trovare questo documento, visto che è stato il primo intervento tenuto nel Consiglio Regionale della Sardegna il 28 maggio 1949. Mi piace leggere solo un brano del presidente Amicarelli che, come ha ricordato la presidente Lombardo, è stato il primo a presiedere l'Assemblea regionale. Diceva il presidente Amicarelli: "Gravi responsabilità abbiamo assunto con il nostro mandato, formidabili problemi dobbiamo affrontare e risolvere per la ricostruzione del benessere economico, morale e sociale della generosa e forte terra di Sardegna. Arduo e grave il nostro cammino, si impongono tenacia di propositi, fermezza di volontà, serietà di intenti nello studio dei problemi e nella loro risoluzione graduale, moderata e ferma". Io credo che se qualcuno volesse (e credo che lo dovremmo fare tutti quanti) commentare e interpretare al meglio questo brevissimo passo dell'intervento del presidente Amicarelli, troverebbe in esso concentrato tutto ciò che deve essere l'impegno dei consiglieri regionali e dell'Assemblea regionale. Io non so se qualche volta ci siamo dimenticati di questo, credo che ce ne dovremmo dimenticare il meno possibile, e ricordarci invece quello che è il mandato che abbiamo ricevuto dagli elettori.
Sono sicuro che sessant'anni non sono passati inutilmente, anzi, sono stati certamente utili, proficui, ma il mondo è cambiato, lo hanno ricordato il collega Pierpaolo Vargiu e altri colleghi. Siamo in un mondo completamente diverso da quello, quindi dobbiamo pensare al futuro di questa terra, forte e generosa, com'era stata definita a suo tempo, ma come anche altri l'hanno definita. Ci vuole ferma volontà, sì, ci vuole grande impegno in quest'Aula e fuori da questa Aula, però il mandato lo abbiamo ricevuto noi, e qui inizia il problema anche con l'elettorato, inizia il problema anche con chi va a votare e con chi non va a votare, poi iniziano i proclami se siamo veramente noi i depositari dell'autonomia, e se dobbiamo essere noi i difensori strenui di questa autonomia.
Guardate, abbiamo avuto un'occasione straordinaria l'altro giorno per le elezioni europee, non c'era bisogno di grandi sforzi, eravamo in grado di eleggere due parlamentari europei con le nostre forze, senza pensare di avere l'unico candidato, l'unica candidata, senza problemi. Non ci doveva far paura la Sicilia, e non ci ha fatto paura, eppure avevamo la possibilità di eleggere due parlamentari europei. Ci siamo arrivati vicino. Mi dispiace per la collega Barracciu, mi dispiace per la nostra parlamentare uscente Calia, perché sono arrivate al limite dell'elezione, pur essendo noi una regione molto più piccola, pur essendo noi un elettorato molto ridotto. Anche da questo si può notare il grado di autonomia che noi vogliamo esercitare e lo vogliamo esercitare in quest'Aula.
Noi vorremmo dimenticarci delle recenti esperienze politiche che in quest'Aula si sono vissute. Ha fatto bene il presidente Cappellacci a ricordarci alcuni passaggi. Noi siamo i depositari della pubblica amministrazione in Sardegna, siamo coloro che devono esercitare l'autonomia, siamo coloro che devono modificare lo stato non felice dell'economia della Sardegna. Io sono uno portato per natura mia, e vorrei impegnarmi tanto nella soluzione dei problemi economici, non che non esistano gli altri problemi, ce ne sono tantissimi di problemi, ma io sono convinto che se non risolviamo il primo problema, che è quello dell'occupazione (non tanto della salvaguardia del posto di lavoro - avrei voluto dirlo al collega Uras, che è sempre molto attento su questo - perchè abbiamo capito tutti quanti che non è più sufficiente neanche quello), è necessario che noi diamo altre spinte, altre opportunità, che noi creiamo le condizioni perché una famiglia possa vivere, certo, con il posto di lavoro, ma non con le condizioni economiche che noi abbiamo. Questo non è più possibile, e su questo dobbiamo ragionare tanto.
Abbiamo voglia noi di dire che dobbiamo ribassare o abbassare la disoccupazione, oppure dobbiamo sistemare i precari. Se sistemiamo i precari a 800 euro al mese, guardate, non risolviamo il problema, risolviamo una piccola parte del problema. Il problema è che noi abbiamo necessità di mettere a disposizione dei nostri cittadini ulteriori opportunità. Questo credo che sia lo sforzo che noi dobbiamo fare nel ricordare sessant'anni di storia. Qualcuno è partito dal 1355, cosa buona e giusta, è vero, forse un'autonomia noi l'avevamo molto prima del '48, quando è stato scritto lo Statuto regionale, molto prima del '49, quando si è insediato il primo Consiglio regionale. Ce l'avevamo già da prima, forse non l'abbiamo saputa esercitare, forse il mare ci ha separato troppo, però ci sono altre isole che quell'autonomia se la sono conquistata, guadagnata, garantita, e oggi vivono probabilmente una stagione diversa e migliore della nostra.
Faccio queste considerazioni al Consiglio regionale, qualcuno potrebbe pensare che le sto facendo per un ruolo particolare che io ho. No, io ho certamente una grandissima fortuna, ho un grandissimo impegno, che è quello di essere Presidente di un Gruppo consiliare straordinariamente importante, importante come numeri, ma io vorrei dire che è straordinariamente importante per ciò che il Popolo della Libertà rappresenta all'interno di questo Consiglio regionale. Questa responsabilità mi porto appresso, ed è una responsabilità che vorrei trasferire a tutto il Consiglio regionale, anche all'onorevole Salis, che spesso e volentieri assume atteggiamenti, vorrei definirli, di non collaborazione, onorevole Salis. Se dobbiamo fare delle modifiche statutarie, siamo tutti pronti, ci possiamo sedere quando vogliamo, ma non dobbiamo essere accusati del fatto che, nella precedente legislatura, noi ci saremmo tirati indietro. Molte delle vostre modifiche sono cadute, e certamente non per responsabilità nostra, e la storia dice, se ci deve insegnare qualcosa, che è meglio che le modifiche statutarie, le grandi riforme, in questa Regione, le facciamo dentro quest'Aula consiliare col concorso di tutti certamente, ognuno con le proprie opinioni, e col grande concorso della Giunta e del Presidente della Regione.
(Applausi)
PRESIDENTE. I lavori si concludono a questo punto. Vorrei ringraziare tutti per la partecipazione e invitarvi ad assistere adesso alla proiezione di un documentario sulle origini delle istituzioni regionali, realizzato - accogliendo una richiesta del Consiglio - dalla redazione giornalistica della sede RAI di Cagliari, diretta da Tonino Oppes. Il filmato è stato curato da Jacopo Onnis.
Il Consiglio verrà riconvocato a domicilio.
La seduta è tolta alle ore 12 e 17.