Seduta n.10 del 28/04/2014
X SEDUTA
(SEDUTA SOLENNE)
(ANTIMERIDIANA)
Lunedì 28 aprile 2014
Presidenza del Presidente Gianfranco GANAU
La seduta è aperta alle ore 11 e 30.
FORMA DANIELA, Segretaria, dà lettura del processo verbale della seduta pomeridiana del 9 aprile 2014 (7), che è approvato.
PRESIDENTE. Comunico che i consiglieri regionali Anna Maria Busia, Lorenzo Cozzolino, Roberto Desini, Gavino Manca e Alessandro Unali hanno chiesto congedo per la seduta antimeridiana del 28 aprile 2014.
Poiché non vi sono opposizioni, i congedi si intendono accordati.
Celebrazione de "Sa Die de sa Sardinia"
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la celebrazione de "Sa Die de sa Sardinia", ai sensi della legge regionale numero 44 del 1993. Per questa celebrazione è previsto prima un mio intervento, quattro interventi della minoranza della durata di quattro minuti ciascuno, un intervento della maggioranza per dieci minuti e la conclusione da parte del Presidente della Regione.
Presidente Pigliaru, onorevoli colleghe e colleghi, signori Assessori, un saluto alle autorità presenti e ai gentili ospiti che hanno voluto, accettando l'invito, condividere con noi questa particolare giornata, 'Sa Die de sa Sardinia', giornata della festa nazionale dei sardi, istituita con specifica legge da questo Consiglio regionale il 14 settembre 1993. La data del 28 aprile è stata scelta come giornata simbolica in riferimento allo stesso giorno del lontano aprile 1794, che è passato alla storia per l'insurrezione dei sardi e la cacciata dei dominatori piemontesi. Quel giorno, a Cagliari, migliaia di sardi di tutte le appartenenze sociali, uomini e donne, giovani e meno giovani, insorsero contro i piemontesi, dando l'assalto al Castello, espugnandolo e catturando lo stesso Viceré, che fu poi imbarcato con tutti i cortigiani e i burocrati di regime e rispedito a casa.
Si tratta di un episodio storico che trae origini complesse da uno stato di malessere profondo del popolo sardo che, a causa dell'intollerabile gravame delle imposizioni fiscali, dell'aumento generalizzato e progressivo dei costi e della corruzione dilagante, rivendicava da tempo una maggiore partecipazione alle scelte e al governo dell'isola.
Già in precedenza, nel 1793, in occasione di un tentativo di invasione via mare da parte dell'esercito francese, i sardi, vista la totale impreparazione e la sostanziale passività dei piemontesi, organizzarono un proprio esercito e respinsero il tentativo di occupazione. Il giusto orgoglio di aver sconfitto una delle potenze europee più temute catalizzò le rivendicazioni della classe dirigente del popolo sardo che si concretizzarono con le famose cinque domande degli Stamenti, con cui si richiedeva di fatto una maggiore partecipazione alle scelte di governo dell'isola e una maggiore, seppur blanda, autonomia nei confronti della penisola.
In cambio, dopo l'affronto alla delegazione sarda di un'attesa di tre mesi per essere ricevuta dal Re, senza peraltro ottenere alcuna risposta che, in forma di diniego, fu data direttamente al Viceré, mentre la delegazione restava ancora in attesa, si ottenne il divieto di riunione degli Stamenti.
Antipiemontismo e antidispotismo trovarono vigore dall'indignazione e dall'autocratica condotta del Viceré, a livello locale, e dal mancato riconoscimento del ruolo determinante dei sardi in occasione dell'attacco francese vedendo invece premiati dal Re principalmente i piemontesi che, come detto, non svolsero alcun ruolo.
La data del 28 aprile 1794 e l'episodio storico ricordato, che ha rappresentato un vero e proprio atto rivoluzionario, diventano oggi simbolo dell'orgoglio sardo e il riferimento per un percorso non ancora compiuto, che proprio qui trova le ragioni più profonde nella ricerca di autonomia, nella sua difesa e nell'ampliamento verso il pieno riconoscimento dei sardi all'autodeterminazione.
Nello stesso 1993, anno in cui fu promulgata la legge istitutiva di Sa Die de sa Sardinia, qualche tempo prima, furono approvate altre due leggi di grandissimo valore dal punto di vista identitario, quella sulla cultura e quella sulla lingua sarda. Leggi che devono ancora trovare piena attuazione ed efficacia. Cito queste leggi perché, a rileggere gli atti di quella legislatura, emerge una forte spinta e volontà unitaria. Si arrivò a quelle leggi grazie all'unificazione delle tante proposte presentate. Allora, con grandissimo e alto senso di responsabilità e funzione, ogni commissario rinunciò a qualcosa, concordando e scegliendo i testi migliori per esitarne uno unitario e condiviso da tutti. Un percorso, non sembri irrispettoso il paragone, simile a quello che i padri costituenti fecero per arrivare all'atto fondante della nostra Repubblica.
Ecco, credo che quell'esempio di buona e alta politica costituisca il modello da seguire e il riferimento per arrivare all'obiettivo, da troppo rinviato, della riscrittura del nostro Statuto. Oggi, di fronte a una riforma dell'assetto istituzionale della Repubblica che cancella ogni speranza di un percorso federalista, perseguito seppur contraddittoriamente per qualche decennio, e che solo pochi anni fa sembrava irreversibile, ci troviamo al contrario di fronte a una riforma che modifica l'assetto dello Stato in senso fortemente centralista. Riforma che, di fatto, limita e sottrae funzioni alle Regioni riportandole principalmente sotto il controllo statale e attacca, sino a metterli in discussione, la nostra specialità e gli ambiti di autonomia.
È evidente, lo abbiamo già detto con grande chiarezza anche in questo avvio di legislatura, che non siamo disposti a fare un solo passo indietro su questi temi, ma credo che, proprio perché in tutto il popolo sardo è cresciuta ed è oggi comune la consapevolezza dei propri diritti, dobbiamo accettare la sfida proponendo, dopo tanto parlare, una revisione del nostro Statuto che vada nel senso opposto, nel senso di una maggiore autonomia e autodeterminazione, aprendo una fase nuova, seppur difficile, di ricontrattazione con lo Stato, che dia risposte al mancato riconoscimento di diritti paritari rispetto al resto della nazione. Mancato riconoscimento di diritti fondamentali che si configura nel deficit di infrastrutture, di trasporti interni ed esterni, nell'assenza di energia a basso costo che impedisce sviluppo e competitività, fino alla negazione del diritto di essere rappresentati nel Parlamento europeo.
Su questi temi dobbiamo dare risposte ai sardi. La riforma dello Statuto è un passo fondamentale e un obiettivo non rinviabile di questo Consiglio. Sono convinto che questo compito sia prerogativa specifica del Consiglio regionale e che a tutti noi spetti il compito di lavorare alle modifiche e trovare gli strumenti di coinvolgimento più ampi, ma facendo riferimento al Consiglio come organo pensante, proponente e deliberante.
Questo è il senso attuale di Sa Die de sa Sardinia, giornata dell'orgoglio sardo, ma anche giornata di lotta di un popolo che non si riconosce solo in una terra ma nei suoi valori, cultura, tradizioni, luoghi, lingua, insomma nella propria forte identità e, con convinzione, si unisce per i propri diritti e la piena autonomia. Spetta a noi rappresentare con convinzione queste istanze e condurre questa difficile vertenza decisiva per il futuro della Sardegna.
Quest'anno abbiamo voluto dare maggiore solennità a questa seduta di Consiglio richiamando alcuni momenti di forte rappresentazione e identificazione, a partire dalla Banda della Brigata Sassari, i nostri Dimonios, al canto a tenore che, lo ricordo, è patrimonio dell'umanità rappresentato dai tenores di Neoneli, all'unicità dei suoni delle launeddas che sentiremo tra poco grazie ad Andrea Pisu accompagnato da Pierluigi Mattana.
Colgo l'occasione per ringraziare tutti per la collaborazione offertaci e per la disponibilità che ci ha consentito di sottolineare con maggior forza la solennità di questa giornata. Credo che dobbiamo fare uno sforzo ulteriore per il futuro, perché il nostro incontro non appaia come una cerimonia imbalsamata e rituale, quasi obbligata, ma sia un vero momento di avvio di un'azione che deve essere quotidiana sui temi della maggiore autonomia verso l'autodeterminazione e che, dalle prossime scadenze, sia invece momento di verifica del lavoro fatto in un anno.
Credo inoltre che la scelta di creare eventi e di essere tra la gente, fuori dal Palazzo, in questa giornata, sia un modo per rendere più efficace la sensibilizzazione sui temi che trattiamo, ma anche un modo per segnalare una maggiore vicinanza di questo Parlamento al territorio e ai sardi.
Ha facoltà di parlare il consigliere Modesto Fenu.
FENU MODESTO (Sardegna). Signor Presidente, onorevoli colleghi, Popolo sardo, questa giornata è vieppiù importante in questo periodo in cui purtroppo qualcuno vuol farci digerire la possibilità di una modifica del Titolo V che preveda la riduzione della capacità di autodeterminazione del Popolo sardo e di autonomia della nostra Regione. L'autodeterminazione del nostro popolo e il rispetto della nostra cultura, identità, tradizioni e peculiarità sono e rappresentano, sia oggi che in futuro, in un mondo globalizzato, la nostra ancora di salvezza, la possibilità di tenerci saldi alla nostra terra per evitare di essere in futuro come delle "canne al vento", si tratta della nostra salvezza culturale, identitaria, politica ma anche economica, per questo è sentita da tutti noi.
Dobbiamo sempre ricordarci di ciò a tutela doverosa dei nostri figli e delle future generazioni. Solo la riscoperta della nostra cultura, della nostra identità e delle nostre tradizioni può proteggerci in futuro. Vado direttamente alle conclusioni con parole che possono sembrare anche forti: mi auguro, signor Presidente e cari colleghi, lo auguro a tutto il popolo sardo, che, nei prossimi anni, non ci sia più bisogno di festeggiare questa ricorrenza una volta all'anno, ma che festeggeremo la Sardegna, la nostra storia e la nostra identità per 364 giorni all'anno magari dedicando un giorno a ricordare il rapporto, purtroppo attualmente spesso conflittuale, con lo Stato italiano. Rapporto che va totalmente riscritto e ridiscusso, fermandoci a ricordare, ripeto, per un solo giorno, un percorso storico in cui altri volevano farci fare ciò che noi non volevamo fare e volevano farci essere ciò che noi non siamo, noi siamo sardi!
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Attilio Dedoni.
DEDONI ATTILIO (Riformatori Sardi). Signor Presidente, signor Presidente della Regione, consigliere e consiglieri di questa Assise, sono felice di essere qui questa mattina a ricordare Sa Die de sa Sardinia che si è realizzata, oggi, in questa sede, per l'insistenza di alcuni consiglieri e dei gruppi di minoranza. Non è una ritualità: nel 1993, quando fu sciolto il nodo tra le molte possibilità di festeggiare la Sardegna e la sua entità, si scelse questo giorno perché in quella Commissione, presso l'Assessorato della pubblica istruzione, si riuscì a realizzare concretamente una unanimità. Una unanimità conseguente a una coralità di popolo, perchè già in quell'anno che noi festeggiamo, il 1794, era presente il trinomio illuministico che poi governerà l'insieme della democrazia occidentale.
La Sardegna è stata puntualmente un artefice in mezzo al Mar Mediterraneo. Una Sardegna che non viene riconosciuta per quella che è, un'isola che determina, insieme al corollario delle altre isole, la sua presenza fisica all'interno del Mar Mediterraneo. Un Popolo che è la sua nazione, quindi è uno Stato in sé se venisse riconosciuto, ma è una nazione-non stato, dobbiamo riflettere bene perché, nel 1847, gratuitamente, gli Stamenti sardi diedero l'opportunità al Regno di Piemonte di avere la presenza di questa statualità.
Noi potremo festeggiare e ricercare, attraverso la storia, il portato vero, le iniziative necessarie per dare contenuto, mai sarà ritualità se si crede in un obiettivo, quello di dare risorse piene a uno Stato; lo Stato italiano oggi, purtroppo, ci nega la possibilità di avere risorse giuste per tutto quello che la Sardegna ha affrontato, per tutto quello che deve affrontare e per quell'autonomia forte che reclamiamo per poter avere l'autogoverno vero, serio, forse la serietà è mancata nei governi da quegli anni in poi, ma è oggi necessario, più che mai, che riprendiamo il cammino verso una nuova Sardegna, verso la prospettiva di un futuro diverso e la ricontrattazione del nostro essere "autonomia seria" all'interno dello Stato e dell'Unione europea.
Vogliamo uno Statuto nuovo, quello che da tempo reclamiamo e che il Popolo sardo attende, perché non ci può essere rapporto con uno Stato centrale se non c'è la pienezza dell'autonomia, cosa che questa innovazione del Titolo V vorrebbe cancellarci, toglierci, rendendoci inferiori rispetto a una Regione a Statuto ordinario. Dobbiamo pretendere, come Sardegna, di avere quell'autonomia piena che ci compete perché siamo stati uno Stato che ha fondato la Repubblica italiana di oggi. Di questo molti ancora non hanno contezza, allora questa giornata serve anche a dare sviluppo e coralità.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Gianluigi Rubiu.
RUBIU GIANLUIGI (UDC). Presidente del Consiglio, Presidente della Regione, consigliere e consiglieri, signore e signori membri della Giunta, oggi ci troviamo a celebrare una delle ricorrenze più significative della storia della nostra Sardegna, la festa del Popolo sardo. Tutti dobbiamo vivere Sa Die de sa Sardinia come la vittoria del popolo di un'isola che ha espresso il malcontento verso un Governo centrale che non aveva più occhi e più orecchie per percepire le istanze e le necessità del Popolo sardo. L'insurrezione popolare del 28 aprile 1794 ha avuto dei risultati importanti che sono rimasti indelebili nella nostra storia. Vorrei ricordare che i risultati di quegli anni sono stati raggiunti con gravi disordini sociali, con la violenza e con il versamento di sangue, ciò rappresenta senz'altro un costo molto alto che i nostri avi hanno dovuto pagare. I Regali di Savoia avevano esautorato i sardi da ogni ruolo dell'amministrazione del territorio, cariche destinate ai piemontesi e ai funzionari esterni, ciò aveva naturalmente causato il forte malcontento sociale e la disaffezione nei confronti della Corona.
A questo punto i sardi portarono al Governo Regio cinque richieste che avevano lo scopo di integrare il Regno sardo nelle scelte di carattere pubblico, una maggiore rappresentanza istituzionale tramite l'istituzione di un Ministero degli affari della Sardegna con sede a Torino, la conferma di normative e privilegi per l'Isola; la totale negazione dei Regali sabaudi, com'è noto, provocò l'insurrezione popolare a cui conseguì la cacciata del Viceré Balbiano.
Personalmente credo con convinzione che la Regione Sarda, in quanto istituzione, debba rammendare i valori di unione, coesione e di condivisione che hanno spinto tutto il popolo a muoversi congiuntamente per rivendicare diritti di un'Isola che merita rispetto. Il 28 aprile è la giornata del popolo sardo solo dal 14 settembre 1993, quando il Consiglio regionale la riconobbe come festività. Pertanto questo Consiglio ha l'obbligo di valorizzare questa ricorrenza sottolineando le motivazioni che hanno spinto i sardi all'insurrezione. Oggi più che mai c'è forte bisogno di ricordare quanto accadde in quella vigorosa ed energica reazione del popolo sardo. Parole come disaffezione politica, malcontento sociale e soprattutto sensazione di un Governo insofferente e distante sono sempre più attuali e ricorrenti.
Di conseguenza dobbiamo riflettere sul nostro passato per capire il presente. Proprio l'analisi della situazione attuale ci ricorda quanto la storia di due secoli fa si stia per certi versi ripetendo e sia drammaticamente attuale. Come accadde infatti allora, anche oggi i sardi si sentono nuovamente sudditi di un Governo nazionale arrogante, disattento e distante dalle esigenze dei cittadini e ciò limita inevitabilmente le opportunità di crescita, di sviluppo economico e sociale.
L'attualissima ipotesi della riforma del Titolo V della Costituzione presentata dal nuovo Governo minaccia di cancellare le autonomie regionali e le specificità dei loro Statuti, rappresentando un grave oltraggio per la Sardegna che rischierebbe di perdere inspiegabilmente uno dei diritti acquisiti all'alba della nascente Repubblica italiana.
Cari colleghi, Presidente, abbiamo il compito di reagire, di unire tutte le nostre forze politiche e sociali perché mai come in questo momento la Sardegna si aspetta da noi azioni concrete, determinanti, con una politica seria e capace di difendere i diritti dei sardi che qui rappresentiamo.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Gavino Sale.
SALE GAVINO (Gruppo Misto). Presidente, un saluto a tutto il Consiglio, ai consiglieri, alle consigliere, un saluto a tutto il popolo sardo, agli uomini e alle donne di Sardegna. Mi trema un po' la voce perché, oltre a essere emozionato, sono commosso. Non credo che, in nessuna Regione italiana, succeda quello che è successo oggi. Non credo che nessuna delle Regioni italiane abbia una storia intensa, forte, come la storia della Sardegna e cioè una storia di una nazione compiuta.
Perché si è fermata oggi la Sardegna? Nelle scuole, nelle università, nei posti di lavoro, festeggiano qualche cosa, festeggiano un messaggio fortissimo e chiaro che proviene da quel periodo cosiddetto rivoluzionario antifeudale incarnato da un personaggio grandioso come era Giovanni Maria Angioy. E che cosa ci ha lasciato Giovanni Maria Angioy? Innanzitutto una lezione etica, perché lui poteva essere padrone, re, ricco e ricchissimo proprietario di quest'Isola ma ha fatto un'altra scelta, nobile, di altissimo livello, ha dedicato la sua vita e questa rivoluzione alla nazione, al popolo sardo, alla sua libertà e alla sua indipendenza! Questo ci ha lasciato! Un messaggio intimo nostro di atteggiamento che non è una propria azione per il nostro benessere ma un messaggio a tutta la nazione per il benessere collettivo. Questo è il primo passaggio. Segundu: è una rivoluzione sociale. Passare oltre lo Stato feudale, andare verso nuove forme moderne di partecipazione e di vera democrazia: un'altra rivoluzione! Praticamente ha aperto una fase moderna e storica che non sono i Savoia a chiudere e tanto meno lo Stato italiano, tocca solo ed esclusivamente a noi e a questo popolo chiudere quella fase.
Bene hanno fatto i comitati a inventarsi Sa Die de sa Sardinia. Ma Sa Die de sa Sardinia ha da venire! Giò Maria Angioy, Cillocco e Mundula parlavano chiaramente di nazione, di Stato indipendente, di una Repubblica che deve irrompere nel consesso europeo, mediterraneo, universale, nel mondo intero! Noi siamo molto lontani da quella storiografia della sconfitta, come ci hanno insegnato, non ci hanno sconfitto, abbiamo semplicemente perso battaglie. Questa è una battaglia persa ma la guerra e il destino nostro li dobbiamo vincere noi! Abbiamo fatto già cenno alla grandissima civiltà nuragica, 1400 anni, abbiamo fatto già cenno al periodo di libertà giudicale, 400 anni, e alla rivoluzione che ci sta dando traiettorie chiarissime dove dobbiamo portare il nostro popolo. Dobbiamo ricordarci che questo Governo rappresenta semplicemente il 18 per cento dei sardi, quindi ci impone uno sforzo enorme, disumano, affinché vengano coinvolte tutte le rappresentanze della nazione sarda, dobbiamo aprire questo Consesso, quest'Aula, e farle partecipare tutte, se no siamo illegittimi rispetto al Governo di Roma, rispetto alla Comunità europea, con un grande sforzo di partecipazione avendo sempre chiari in mente gli insegnamenti dei nostri padri fondatori, e Giò Maria Angioy è uno di questi padri.
Credo che questo Governo abbia tutta la sensibilità di rispettare queste tracce, queste radialità, liberanti, liberatorie, progressive, progressiste, che la storia raffinatissima del nostro popolo ci impone. Stiamo uscendo da una fase di una coscienza depressiva, ci hanno raccontato questa storia da perdenti, è falsa! Ma noi stiamo prendendo coscienza e stiamo entrando in una fase di acquisizione di una coscienza del valore. Un'acquisizione di questa coscienza che deve essere ovviamente critica, altrimenti cadiamo nel più bieco, diciamo, nazionalismo. Stiamo proponendo e stiamo sicuramente andando verso una nuova esistenza libera, se ne percepisce tutta l'emozione, la passione, la voglia di chi è fuori da questo Consiglio regionale. Sono certo che questo Governo stia dando speranze forti; si percepisce anche fuori, dobbiamo amplificare questo tipo di percezione perché abbiamo un grande dono noi sardi, oltre a questa potenza interiore che ci proviene dalla nostra storia intensa, liberatoria e liberante, siamo destinati oramai e sempre ad andare avanti, non possiamo tornare indietro perché "indietro" non sappiamo dov'è! Un augurio a totusu,a largos annos verso questa esistenza libera.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Christian Solinas.
SOLINAS CHRISTIAN (PSd'Az). Presidente, noi Sardisti abbiamo insistito molto perché quest'Aula fosse solennemente convocata oggi, anche vibrando parole ferme contro una certa forma di rassegnazione che principia proprio dal considerare come rituali e celebrativi gli appuntamenti di un popolo con la propria storia. Non è un esercizio sterile di retorica o un vezzo storiografico, ma la più concreta affermazione di un archetipo irrinunciabile. Un popolo che non abbia consapevolezza di sé, del proprio percorso esistenziale, che non riconosca le radici della propria storia, non può solidamente fondare il proprio presente né costruirsi un futuro. Ogni tempo ha il suo 28 aprile, oggi più che mai attualizzarne i contenuti per strutturare una resistenza istituzionale e popolare ai modelli neocentralisti propinati improvvidamente dal Governo nazionale, diviene un imperativo categorico per tutti noi.
Questa terra ben conosce i soprusi e le ingiustizie che non sono appannaggio dei secoli passati, ma continuano senza sosta a declinarsi nelle vicende del presente. Lo scippo delle risorse, la slealtà dello Stato nel disattendere gli accordi e finanche le sentenze in materia di compartecipazioni fiscali, la negazione di rappresentanze in Europa, i continui tagli all'istruzione pubblica, la contrazione degli organici, il tentativo di cancellare la lingua e la cultura sarda, sono tutti argomenti dell'agenda contemporanea, eppure non sono nuovi, sono gli argomenti di sempre che restano tali e atavicamente irrisolti. Mi sovvengono le parole del troppo spesso dimenticato magistrato di Ploaghe Giovanni Maria Lei-Spano che, nella sua fondamentale opera del '22, "La questione sarda", ebbe lucidamente a scrivere: "Le promesse che i Governi hanno fatto all'isola non sono state mai mantenute. Abbiamo da lamentare il massimo taglieggiamento nei favori che lo Stato concede alle altre regioni del Regno". E' tempo che, dalla lezione della storia, si tragga una linea di condotta che deve vedere unito il popolo sardo, basta con le divisioni. Questo popolo, questa terra, definita geograficamente dai millenni, ha diritto di governarsi, di compiere le proprie scelte entro il perimetro peculiare della cultura, della lingua, della propria società, della propria storia. E' nell'insopprimibile anelito alla libertà che risiede il nostro impegno politico, il gravoso incarico che la storia ci affida: condurre la Sardegna all'indipendenza.
Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, il Partito Sardo d'Azione da oltre novant'anni rappresenta un'avanguardia su questi temi e ha generosamente contaminato la tavola di valori di numerosi partiti e movimenti che hanno attinto al suo patrimonio di elaborazioni programmatiche e culturali. Dinanzi allo scenario attuale, alla drammatica congiuntura che l'Isola affronta, la sfida di oggi è più che mai l'unità. Credo, amici, che dovremmo cominciare ad avviare un percorso di ricomposizione culturale, programmatica e politica di questo giacimento di passione, competenze, impegno. E' per questo che oggi, in questa data simbolica, riproponiamo il progetto di legge sull'Assemblea costituente del popolo sardo, per rinegoziare il patto di coesistenza con la Repubblica italiana e con l'Unione europea, e la mozione sull'indipendenza, sull'indipendenza della Sardegna per arrivare a un referendum che sancisca il diritto di autodeterminazione dei sardi.
Lo rifacciamo, Presidente, ripartendo da questa bandiera, bandiera che oggi qui portiamo in segno solenne di celebrazione, che è la prima bandiera dei reduci del combattentismo, che traducevano i bisogni, le ansie, le aspettative di un intero popolo in un progetto politico universale; bandiera cucita a mano da Marianna Bussalai, fulgido esempio di passione e impegno femminile, di emancipazione e riscatto culturale e sociale, morta prematuramente a soli 43 anni nella sua Orani. Eppure, da quella casa, la casa degli Angioy, proprio loro, perché un sottile filo unisce la nostra storia, Mariannedda 'e sos Battor Moros, come veniva chiamata, con i suoi scritti, le sue lettere, le sue poesie, raggiunse tutto il mondo. Ebbe a scrivere all'indimenticato Titino Melis, già consigliere di quest'Aula e deputato: "Il mio sardismo data da prima che il Partito Sardo d'Azione sorgesse, cioè da quando, sui banchi delle scuole elementari, mi chiedevo umiliata perché nella storia d'Italia non si parlasse mai della Sardegna. Giunsi che la Sardegna non era Italia e doveva avere una storia a parte".
Credo che oggi più che mai, nelle coscienze di ciascuno, questo concetto trovi sempre più spazio. L'appartenenza al popolo sardo prima che l'appartenenza ai partiti romani e a interessi lontani e perniciosi per l'isola è quella che determina il brivido che tutti noi abbiamo sentito sulle note del nostro inno nazionale. Serve il coraggio di emanciparsi completamente, di mettere da parte le militanze e lavorare su un grande progetto comune, perché, lo dico ancora una volta con le parole di Marianna Bussalai, "la sorte dell'aristocrazia di un popolo schiavo è peggiore spesso di quella del proletariato di un popolo libero".
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il consigliere Ugo Cappellacci.
CAPPELLACCI UGO (FI). Signor Presidente del Consiglio, signor Presidente della Giunta, Assessori, onorevoli colleghi e Autorità, le solenni celebrazioni presentano un rischio, quello di fermarsi alla pura e semplice rievocazione, al rito, all'esercizio retorico. Il 28 aprile non è e non deve essere solo il ricordo di un episodio storico, ma è una storia di coraggio, di ribellione, di autonomia di quell'essere popolo che rende più forte la comunità perfino dinanzi a quei nemici che sembrano invincibili. Per questo, cari colleghi, se vogliamo veramente rendere onore a chi si ribellò alla tirannide, non possiamo farlo in maniera statica e in qualche modo ordinaria per poi tornare ciascuno alle proprie occupazioni, ma dobbiamo farlo in maniera dinamica, dobbiamo vivere il 28 aprile.
Non occorre una particolare immaginazione per cogliere le analogie tra la Sardegna di allora e quella di oggi. Sono ancora molti, troppi, i viceré dei nostri tempi che non rispettano i diritti del popolo sardo. I Balbiano moderni a volte sono espressione di un potere politico, altre volte, spesso, sono quelli che rappresentano interessi economici opposti a quelli della Sardegna ed esistono purtroppo ancora le corti, cioè gli ambienti più o meno consapevolmente compiacenti. D'altra parte, però, vi è una rinnovata consapevolezza della nostra identità, di una visione del popolo sardo come comunità, una rinnovata consapevolezza dei nostri diritti. E' un sentimento che ha certo delle fasi alterne, tanto da essere un fatto ciclico, ma è un sentimento che abbiamo il dovere di interpretare, di alimentare affinché abbia quella stabilità necessaria a rendere più forte la Sardegna, soprattutto in momenti come questo, soprattutto nei momenti del bisogno. Abbiamo il dovere di pensare e propugnare una nuova autonomia, che sia tesa a ottenere un riconoscimento e una garanzia dei diritti dei sardi, della nostra specialità. Dobbiamo passare dall'autonomia della regione all'autonomia dei sardi, come singoli e come collettività, cioè l'autonomia di poter sviluppare il proprio percorso di vita come donne, come uomini, come lavoratori e imprenditori e professionisti, ovvero la grande libertà di poter dire a se stessi, alla propria famiglia, alla comunità: "Anche io faccio la mia parte".
Ecco perché l'autonomia non è una domanda di assistenzialismo, ma è volontà di fare la nostra parte, volontà di camminare con le nostre gambe; ecco perché non è chiusura al mondo esterno, ma significa guardare ai nostri confini come all'inizio di un'opportunità, come conquistatori e non come conquistati; ecco perché, cari colleghi, è responsabilità e non la ricerca negli altri di un alibi per le nostre manchevolezze. Soprattutto, oggi come allora, rivendicare i diritti del popolo sardo non è indice di un atteggiamento conservatore, ma è vera innovazione, vera rivoluzione, significa rimettere in discussione rendite consolidate da tempo, da parte di chi fonda le proprie fortune politiche ed economiche sulla condizione di miseria altrui. La nuova architettura istituzionale della Sardegna deve altresì inquadrarsi in una generale riforma dello Stato che tra l'altro dia una nuova configurazione al rapporto tra l'amministrazione centrale e i territori, troppo spesso affidato a una, ahimè, sempre più rara leale collaborazione.
Onorevoli colleghi, la sfida che ci attende è proprio questa, non aspettare che tutto ciò arrivi dall'altra parte del mare, non essere puri e semplici esecutori di ordini di scuderia di partito, ma protagonisti del cambiamento, pronti a concorrere, con il contributo di passione, di coraggio, di generosità politica, di impegno, a realizzare la nuova autonomia in Sardegna e la Terza Repubblica in Italia. Il cambiamento inizia da noi, inizia da ciascuno di noi, inizia tutti i giorni dell'anno.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Presidente della Regione.
PIGLIARU FRANCESCO, Presidente della Regione. Presidente Ganau, onorevoli colleghe e colleghi, Autorità, Sa Die de sa Sardinia celebra un evento importante della nostra storia, un evento di responsabilità e di coraggio, che stimola altrettanto coraggio e responsabilità in tutti noi. Non credo che competa al Presidente della Regione un'analisi storica, che peraltro è stata richiamata autorevolmente oggi da altri. A me, al Governo che ho l'onore di presiedere, compete invece di onorare quell'evento impostando un'azione di governo all'altezza di quell'assunzione piena di responsabilità che fu la cacciata della corte piemontese. Assumersi con coraggio le proprie responsabilità per un futuro migliore: è questo il modo giusto di onorare quella giornata. Lo è soprattutto perché è anche il modo più giusto per affrontare gli enormi problemi economici e sociali che abbiamo di fronte a noi. Assumersi con coraggio le proprie responsabilità significa, innanzitutto, richiedere con forza, in tutti i livelli di governo di cui facciamo parte, la nostra partecipazione a pieno titolo a tutti i processi decisionali che ci riguardano.
Il recente episodio con cui il Parlamento della Repubblica ha negato il diritto della Sardegna ad avere un collegio proprio per le elezioni europee è un primo esempio, tra quelli che farò, che dimostra che la nostra Regione ha ancora molte e difficili battaglie da combattere per vedere riconosciuti diritti essenziali di questa natura. Un secondo esempio è sotto gli occhi di tutti in questi giorni. Dobbiamo, ancora oggi, combattere per il diritto a poter usare le nostre risorse per erogare servizi essenziali ai nostri cittadini. In questi giorni, come sapete, stiamo discutendo con lo Stato, lealmente e fermamente, l'adeguamento del Patto di stabilità; è un adeguamento che è un nostro chiaro diritto, sancito non solo da una sentenza della Corte costituzionale, ma anche e soprattutto dal buon senso. Il diritto dei sardi di compartecipare al gettito erariale prodotto nella nostra Regione oggi è infatti gravemente limitato da una norma statale che ha impostato un tetto irragionevole, quanto arbitrario, alla misura nella quale quelle risorse possono essere trasformate in spesa effettiva e dunque in servizi erogati alla nostra gente. La nostra disponibilità a contribuire al risanamento dei conti pubblici nazionali, a contribuire dunque a un processo da cui alla fine trarremo tutti dei benefici, non può avvenire a discapito dei nostri attuali spazi di sovranità responsabile.
Come ultimo esempio è giusto ricordare che ancora oggi dobbiamo lottare per il nostro diritto a disporre di un territorio non vincolato dalla presenza di una quota spropositatamente grande di servitù militari e per il nostro diritto a disporre di un territorio non irreversibilmente danneggiato da attività che quelle servitù consentono di svolgere e che, ancora oggi, tengono al riparo da un nostro effettivo controllo.
Dobbiamo dunque rivendicare ancora oggi, con forza e unità, coniugando lealtà istituzionale e massima determinazione politica, la nostra piena partecipazione al governo dei più importanti processi decisionali che ci riguardano. Allo stesso tempo, mentre rivendichiamo verso l'esterno i nostri essenziali diritti, è giunto il momento di affermare con altrettanta forza che la soluzione di molti dei nostri problemi è nelle nostre mani, nei nostri attuali spazi di sovranità; è giunto il momento di ricordarci che ogni rivendicazione di nuovi spazi di sovranità ci obbliga a dimostrarne la giustezza e il valore attraverso una migliorata azione di governo del nostro territorio.
Il clima che si respira oggi nel nostro Paese, intorno al ruolo che svolgono le autonomie regionali, non è favorevole. L'attuale riforma del Titolo V proposta dal Governo nazionale è il preciso riflesso di questo sentimento diffuso. Oggi, proposte che tendono a riscrivere la forma dello Stato in una chiave neocentralista rischiano di trovare un ampio sostegno nell'opinione pubblica italiana. La migliore risposta a queste tendenze è, come abbiamo spesso detto, considerare i nostri attuali spazi di sovranità come un essenziale esercizio di responsabilità, soprattutto responsabilità di far funzionare al meglio le istituzioni che sono sotto il nostro diretto controllo, le istituzioni dal cui funzionamento dipende direttamente il benessere dei cittadini. Esercitare in modo responsabile questi spazi di sovranità, significa non solo fornire servizi di qualità ai nostri cittadini, non solo migliorare costantemente la qualità dei servizi che mettiamo a loro disposizione, ma significa soprattutto dimostrare, prima di tutto a noi stessi, che siamo capaci di dare ai nostri cittadini servizi migliori di quelli che otterrebbero se le istituzioni che li erogano fossero non nelle nostre mani, ma in quelle del Governo centrale.
Questa è la grande sfida di oggi, questa è la risposta che dobbiamo dare a chi oggi considera il decentramento un'esperienza carica di inefficienza, di sprechi, di assurdi privilegi per le classi politiche locali. Alcune Regioni d'Italia hanno vinto questa sfida, molti loro indicatori economici e sociali mostrano che, in quelle regioni, le istituzioni locali erogano servizi migliori per ogni euro speso di quelli che lo Stato centrale sarebbe in grado di erogare. Dunque non ci sono alibi, questa è la nostra sfida per questi anni. Usiamo i nostri spazi di sovranità per dimostrare di saper essere efficienti ed efficaci, quanto le migliori Regioni italiane, per provare a essere più bravi dei migliori. Tuttavia la strada da percorrere per vincere questa sfida è lunga; le nostre istituzioni funzionano spesso male, generano sprechi ingiustificabili, aggiungono peso burocratico al peso già insopportabile generato da leggi e regolamenti dello Stato centrale, funzionano con inaccettabile lentezza, appaiono assurdamente sovradimensionati in alcuni ambiti e pericolosamente sottodimensionati in altri, senza che esistano meccanismi di mobilità capaci di redistribuire rapidamente risorse così inefficientemente allocate.
La nostra storia recente dimostra anche che la strada da percorrere per vincere questa sfida è una strada difficile, piena di ostacoli, lungo la quale bisogna avere il coraggio di combattere privilegi consolidati e diffusi, privilegi che molti oggi danno per scontati, ma che invece scontati non sono, se non altro per i danni che hanno provocato (e che ogni giorno provocano) a chi (si tratta della stragrande maggioranza) non partecipa a quei privilegi.
Per affrontare con successo questa sfida serve dunque un Governo che sappia fare il miglior uso possibile dei poteri che già abbiamo e di quelli che intendiamo conquistare. L'opportunità è davanti a noi, sta a noi coglierla. In particolare, questa legislatura ha l'occasione di unire un'idea moderna e responsabile di sovranità, con una forte e concreta cultura di governo. Cogliere questa opportunità per noi significa prima di tutto applicarsi al difficile compito di riformare le nostre istituzioni: la macchina regionale, i suoi enti, le sue agenzie, per migliorarne il funzionamento, l'efficacia, i costi, per migliorare la sua capacità di rispondere rapidamente alle esigenze dei cittadini, di semplificare i processi, di fornire servizi essenziali allineati, nei costi e nella qualità, alle migliori pratiche italiane ed europee. I prossimi mesi saranno dedicati alla proposta, alla discussione e all'adozione di queste essenziali riforme delle nostre istituzioni regionali.
Questo è l'impegno che prendiamo oggi per onorare "Sa Die de sa Sardinia". Lo assumiamo certi che la discussione che seguirà alle nostre proposte saprà anch'essa onorare i valori che celebriamo in questa giornata e lo farà se sapremo confrontarci lealmente e se, soprattutto, sapremo insieme far emergere l'interesse generale da quel groviglio di interessi particolari che oggi, più di ogni altra cosa, impedisce alle nostre istituzioni di funzionare nel modo in cui i nostri cittadini si aspettano da troppo tempo. Sono certo di parlare a nome di tutti in quest'Aula. In questa legislatura, le giuste aspettative dei sardi non potranno essere deluse.
PRESIDENTE. Con l'intervento del Presidente della Regione si chiude la seduta formale. Il Consiglio è convocato questo pomeriggio alle ore 16.
La celebrazione de "Sa Die de sa Sardinia" si conclude con l'esecuzione di alcuni brani musicali.
La seduta è tolta alle ore 12 e 18.