L'intervento della Presidente Lombardo al convegno "Fratelli d'Italia: e le sorelle?"
Data: 05/03/2011 - LanuseiCentocinquant’anni possono apparire un periodo relativamente breve per segnare l’età di uno Stato nato giuridicamente e politicamente il 17 marzo del 1861, ma geograficamente e storicamente vecchio di millenni di storia, cultura, arte e tradizioni.
Un passato glorioso, che ha visto la luce intorno alla figura di Roma città-stato, la cui civiltà giuridica e la cui organizzazione sociale e militare per secoli ha dominato il mondo allora conosciuto.
Si sono così gettate le fondamenta di un percorso storico tutto italiano che ha sempre viste unite da una comunanza di territorio, usi, costumi e aspirazioni le popolazioni della Penisola.
In questo intricato complesso di vicende storiche, spesso avvincenti, l’Italia moderna si è formata grazie al comune sacrificio e impegno delle sue donne e dei suoi uomini nel portare a compimento il grande sogno unitario del Risorgimento italiano.
Ma per quanto siano stati giustamente celebrati i grandi artefici maschili dell’Unità d’Italia, le numerose donne che tanto hanno contribuito a questo processo di unificazione, distinguendosi con figure di spessore, sono state relegate dalla storiografia ufficiale in un alone d’ombra senza mai emergere del tutto.
Eppure la storia del Regno prima, e della Repubblica dopo, ha avuto le sue figure eroiche femminili che, al pari degli uomini, si sono battute tenacemente per forgiare lo Stato Unitario e difenderlo sino ai giorni nostri.
La memoria storica ci riporta a personaggi femminili che si sono impegnati nella lotta risorgimentale contro il dominatore straniero: Anita Ribeiro Garibaldi, Teresa Casati Confalonieri, Giulia Beccaria. Tutte per lo più celebrate in chiave romanzata e subalterna, relegate al ruolo di madri, sorelle o compagne dell’eroe romantico risorgimentale al quale si accompagnano.
Nondimeno non sono mancati gli esempi di donne che attivamente combatterono sui campi di battaglia per realizzare l’Unità d’Italia, come Cristina Trivulzio che dedicò tutta le sua esistenza alla lotta patriottica e che fu artefice delle cinque giornate di Milano del ’48 e dell’insurrezione di Roma del 1849.
Cosa sarebbe stata, poi, la storia della nostra attuale Repubblica senza l’apporto fondamentale che la contessa di Castiglione, al secolo Virginia Oldoini, diede alla realizzazione dello Stato italiano?
Lo fece grazie anche la sua avvenenza per portare a compimento una delicata missione che richiedeva altissime capacità diplomatiche e doti politiche non comuni all’epoca. Grazie all’abile regia della Contessa di Castiglione, suffragata dal Conte di Cavour, si aprì al Regno di Sardegna la possibilità di avviare l’unificazione della Penisola con l’appoggio strategico, militare e politico della Francia di Napoleone III e il conforto solidale dell’Inghilterra.
La domanda precedente, per quanto retorica, ha un suo fondamento nel rivendicare il prezioso, quanto insostituibile e per niente iconografico, ruolo svolto dalle numerosissime donne che si sono battute per la nostra Italia.
L’occasione fornita dalle celebrazioni del Centocinquantenario, oltre che al naturale corollario dei festeggiamenti per evidenziare i tratti comuni di una appartenenza, rappresenta un’opportunità da non sciupare per rivisitare in chiave storica, sociologica e culturale la figura delle donne.
Un contributo impareggiabile quello delle nostre donne che sin dal primo incedere del percorso risorgimentale ha fatto da preludio alla nascita dello Stato italiano unitario.
Purtroppo però l’Italia unita, così a lungo agognata, sin dal suo sorgere restò sorda alle voci provenienti dal mondo femminile volte ad ottenere la pari dignità di accesso alla vita pubblica del nascente Stato. L’esempio più eclatante di dipendenza totale delle donne anche per l’espletamento di semplici atti di alienazione, acquisizione o donazione di beni, è fornito dal Codice Pisanelli, del 1865, che prevedeva l’assenso decisivo del coniuge maschile.
Essendo uno dei primi atti giuridici del nuovo Stato ci si aspettava che potesse aprire nuovi orizzonti per la condizione femminile. Invece, si manifestò fortemente involutivo, confermando in toto i pregiudizi già contenuti nel Codice Napoleonico, cui si ispirò, finalizzati a marginalizzare le donne.
Purtroppo non ci si limitò solo a queste facciate di vita domestica, lasciando che la condizione femminile fluttuasse in un mare di ipocrisia fatto di finte aperture liberali, ma in realtà assoggettandola al predominio maschile in tutti le esteriorità della vita pubblica.
Per esempio nello Statuto Albertino non esisteva un divieto esplicito per le donne di eleggere e di essere elette, ma piuttosto la formula costituzionale era poco chiara.
Nell’articolo 24, si parlava di “regnicoli” che erano uguali davanti alla legge e che avevano gli stessi diritti civili e politici. Nel termine regnicoli lo Statuto non escludeva esplicitamente le donne, come non furono escluse, esplicitamente, dal testo unico elettorale approvato con Regio decreto del 28 marzo 1895 n. 83 che prevedeva che l’elettore godesse dei diritti civili e politici, avesse compiuto venti anni, avesse determinati requisiti di censo e di istruzione. Non si faceva nessun riferimento al “genere”.
Questa mancanza di un’esplicita esclusione delle donne diede la possibilità di ricorrere in via giudiziaria, per dare anche a loro la possibilità di votare. Ma la risposta fu sempre negativa.
Quindi, caduto nel vuoto il tentativo di arrivare al suffragio femminile attraverso le vie legali, si tentò la strada delle riforme legislative.
Furono decenni di battaglie e di lotte in cui anche personaggi di grande spessore erano fortemente dubbiosi. Giolitti, nel 1912 in sede di discussione della riforma elettorale, dichiarò che considerava il voto alle donne “un pericoloso salto nel buio".
Dopo anni di rivendicazioni, finalmente, il primo febbraio del 1945 il diritto di voto in Italia fu riconosciuto anche alle donne. In questa legge, però, non si sancì il diritto delle donne anche ad essere elette. Una lacuna colmata un anno dopo nel 1946 con un decreto.
Il referendum che sancì il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, l’elezione della Assemblea Costituente, tenutasi il 2 giugno 1946, e le elezioni amministrative che si svolsero in tutta la Penisola e nelle Isole fra il marzo e l'aprile del 1946 , costituiscono dunque le tappe fondamentali del riconoscimento alle donne di esercitare il diritto primario al voto in piena sovranità e a suffragio universale, cioè senza distinzione di casta e di sesso.
Ma seppure ormai titolari di un diritto fondamentale, come quello del voto, le donne raggiunsero l’effettiva emancipazione politica molti anni più tardi.
Date queste premesse si intuisce come per le donne sia sempre stato difficilissimo ricoprire le prime cariche istituzionali.
In particolare nella storia della Repubblica italiana non c’è mai stato un capo di Stato donna. Anzi, fino a qualche decennio fa, esattamente fino al 1978 quando fu eletto Sandro Pertini, se qualche donna veniva votata durante l’elezione del Presidente della Repubblica, il voto era considerato “nullo”.
Solo alla fine degli anni 70 nei verbali, per la prima volta, vennero riportati i nomi di due donne: la giornalista Camilla Cederna e la moglie dello statista Dc Aldo Moro, Eleonora Chiavarelli.
Di fatto, quindi, in Italia le più alte cariche dello Stato sono state sempre appannaggio degli uomini: mai una donna al Quirinale, mai un premier donna a palazzo Chigi, mai una presidente a palazzo Madama.
Solo due donne presidenti a Montecitorio (Nilde Iotti e Irene Pivetti), poche le donne ministro (la prima fu Tina Anselmi nominata a capo del dicastero della sanità dal 1976 per tre volte nella settima legislatura nei governi Andreotti III, Andreotti IV, Andreotti V). Il ministro donna che ha avuto più deleghe è stata Rosa Russo Jervolino con otto incarichi ministeriali.
Anche in questa occasione dove festeggiamo il Centocinquantenario dell’Unità d’Italia, non possiamo esimerci dal sottolineare come a tutt’oggi parliamo di integrazione e di parità fra i generi come obiettivo ancora da raggiungere.
Dovremmo riflettere sul valore effettivo di questa unità mutilata dalla mancata parificazione dei generi per rimuovere le cause che determinano il perdurare di ritardi e di retaggi nei confronti dell’emisfero femminile.
In una battuta possiamo dire che per completare il quadro dell’Unità d’Italia, oltre all’unità politica e giuridica, si deve affermare ancora l’unità effettiva di genere rimuovendo le ultime scorie di antiquate vestigia di un passato che nella società voleva la donna subalterna all’uomo.
Se per alcune problematiche socio economiche che ci trasciniamo come un fardello negativo dai primi tempi dell’Unità, si parla di Questione Meridionale o, più in particolare per noi, di Questione Sarda, è giusto inserire le problematiche afferenti la condizione delle donne nel nostro Paese come: QUESTIONE FEMMINILE.
Seppure non sia questa l’occasione più appropriata per approfondire le problematiche sulle politiche di genere, legate ad una evidente carenza legislativa e socioculturale, comunque questo momento di festa nazionale solenne può e deve essere anche il teatro ideale per lanciare un severo monito per il futuro affermando il principio che tali disparità non potranno essere tollerate oltre.
Oggi denunciamo con forza questo pregiudizio culturale che vuole il valore incommensurabile della tanto celebrata Unità, che ha portato alla nascita del nostro Stato, vissuto solo attraverso il protagonismo maschile degli eroi risorgimentali.
Nessuno può negare il contributo che le donne hanno saputo offrire per l’unità sociale e culturale dell’Italia, sia mantenendo saldi i valori della famiglia, quale nucleo fondante della nostra società, sia adoperandosi attivamente nella vita pubblica, culturale e politica, con luminosissimi esempi.
L’impegno delle donne nella politica per costruire la società del futuro che tutti vogliamo, rispettosa e attenta ai diritti di tutti, deve rimuovere gli ultimi steccati costituiti dall’attuale organizzazione sociale e istituzionale che non agevola la nostra doppia funzione di esponenti della vita pubblica con quella di figure centrali e insostituibili nel focolare domestico.
Vanno dunque ripensati nuovi moderni modelli sociali che contemperino il rispetto di questo doppio impegnativo ruolo che chiunque di noi si avventuri nell’impegno civile militante è chiamato a svolgere. E vanno nel contempo rimossi retaggi culturali determinati soprattutto dalla mancanza di solidarietà fra le donne impegnate in politica e nelle professioni.
Mi riferisco in tutta evidenza alla carenza che si registra nei sistemi di conciliazione nei settori professionali e produttivi- flessibilità degli orari di lavoro e servizi per l’infanzia in primis-, nelle Assemblee legislative e degli enti locali, dove nelle maggior parte dei casi i lavori sono programmati preminentemente su esigenze di tipo maschile.
Proprio per questo l’Italia registra un primato negativo, essendo agli ultimi posti, negli indicatori volti a misurare l’equiparazione delle donne, soprattutto in politica.
C’è da affermare, invero, che non tutte le colpe ricadono su di una parte. Infatti, un fattore che frena moltissimo in Italia la spinta al raggiungimento di una perequazione fra i generi in tutti i campi dell’attività umana, civile e professionale, è la mancanza di una effettiva solidarietà femminile e di uno spirito che esalti l’idem sentire delle donne in merito alla loro condizione.
In assenza di una profonda e convinta presa di coscienza dello status effettivo nel quale noi donne versiamo nell’attuale realtà sociale, anche l’introduzione di una più robusta e rigida normativa tesa a favorire la parità dei generi in materia di norme elettorali e di incarichi negli esecutivi nelle assemblee elettive della Repubblica, rischia di essere vana.
Un’analisi che si attaglia purtroppo anche alla condizione femminile nella nostra Isola, che pure ha dato i natali a luminosissime figure quali la Statista Eleonora d’Arborea, che tentò vanamente l’unificazione della Sardegna in un unico Regno, e Grazia Deledda prima donna italiana e seconda la mondo a ricevere il premio Nobel.
Posto che rifiutiamo la logica costituita dalle “quote rose” che, se prive di fondamentali premesse meritocratiche, rischiano seriamente di diventare una sorta di riserva indiana che finisce per ingessare e penalizzare proprio le donne, guardando ai fatti di casa nostra dovremmo aspirare ad acquisire una legislazione paritaria per agevolare l’accesso alla politica per il variegato mondo femminile.
Altre Regioni, come la Campania che vanta norme elettorali all’avanguardia in questa direzione, hanno consolidato la cornice normativa e ordinamentale per facilitare l’accesso delle donne e ad esse dovremo guardare nell’immediato futuro.
Certo anche in Sardegna sono stati compiuti grandi passi in avanti nel cammino della parificazione dei generi. Chi vi parla ne è l’esempio lampante, e questo grazie alla grande maturità raggiunta da tutte le formazioni politiche sarde su un tema così delicato. Tuttavia anche nella nostra terra permangono ancora numerosi freni che impediscono il libero dispiegarsi dell’impegno politico delle donne.
Vorrei terminare questo mio intervento con un auspicio rivolto non solo alle donne ma a tutto il Popolo sardo. In un momento di grande crisi la Sardegna deve vincere una scommessa quella dell’unità. Un’unità che deve riguardare non solo gli uomini e le donne, ma il raggiungimento di una effettiva parità tra il Popolo sardo, l’Italia e l’Europa.