Intervento della Presidente del Consiglio Claudia Lombardo per Sa Die de sa Sardigna
Data: 28/04/2009 - Cagliari, Aula Consiliare via RomaIntervento della Presidente del Consiglio Claudia Lombardo per Sa Die de sa Sardigna
Cagliari 28 Aprile 2009 - Oggi ricorre Sa Die de sa Sardigna, la festa di noi Sardi, un giorno solenne, importante, commemorativo. Un giorno nel quale l’idem sentire di popolo, con propria lingua, propria storia, proprie tradizioni e proprio territorio deve trovare esaltazione nel celebrare i valori più alti della sua storia e rinsaldare le radici della sua unità.
Sa Die richiama alla memoria i fatti che culminarono con la cacciata dei piemontesi dall’Isola, il 28 aprile del 1794, considerati i Vespri della liberazione di un popolo e come tali festeggiati al rango di festa nazionale dei sardi. Ma più che i fatti specifici della storica giornata, questa festa tende ad esaltare lo spirito identitario dei sardi che in questa occasione si rinnova perpetuandosi. Non una festa da strumentalizzare per usarla contro qualcosa o qualcuno, ma per ribadire il nostro essere un popolo che ha attraversato le varie epoche storiche mantenendo immutati i caratteri di una originalità, all’interno del panorama italiano ed europeo, riconosciutaci costituzionalmente con la specialità politica.
E’, però, anche un giorno che ci invita a una riflessione profonda su chi siamo realmente, da dove veniamo, dove vogliamo andare, per migliorarci, per poter costruire un futuro meno incerto, più tranquillo e sereno per noi, per i nostri figli e per i nostri nipoti.
Se è vero che la storia ci ha bollato come “pocos, locos y mal unidos”: questo deve valere per il passato! Oggi la nuova classe dirigente si muove opportunamente verso una direzione che esalta i valori posti a cardine dell’unità di popolo, trasformandoli in una ricchezza che ci aiuti ad assumere un ruolo da protagonisti nel confronto con gli altri popoli in Italia e in Europa.
Le istituzioni regionali, da tempo, hanno acquisito la consapevolezza che le divisioni sono un disvalore che, se non rimosso, ci consegnerà alla storia come un popolo rassegnato a un destino di dipendenza. L’intera società sarda , si è finalmente resa conto che prendere coscienza di questa realtà, significa trovare le motivazioni per reagire a una spirale negativa, per rivolgerci al futuro con quella rinnovata certezza che solo un popolo unito e coeso può aspirare a vincere le difficili sfide che lo attendono.
La nostra situazione parla chiaro. Siamo poco più di un milione e seicentomila persone sparse in un territorio vastissimo di ventiquattromila chilometri quadrati, con una densità di sessantotto abitanti per chilometro quadrato, la più bassa d’Italia, tolta la Basilicata e la Valle d’Aosta. Abbiamo grandi potenzialità e una immensa ricchezza che ci deriva da una eredità culturale, storica e di incomparabile bellezza ambientale.
Questo ci deve indurre a batterci con la necessaria energia per assicurare migliori e duraturi livelli occupazionali, utilizzare al meglio le risorse del territorio, migliorare le produzioni, eliminare il triste fenomeno della ripresa dell’emigrazione. E non mi riferisco solo all’emigrazione un tempo definita povera; ma pure agli studenti che vanno a specializzarsi all’estero e che non tornano, ai laureati e ai ricercatori che trovano lontano dalla Sardegna la possibilità d’esprimersi, di mostrare i propri pregi, le proprie capacità intellettuali e attuative.
E se ancora ci stupisce vedere quanto questa gente, anche di seconda e terza generazione, rimanga attaccata alla terra d’origine ciò sta ha significare che i legami di un popolo, fondato da comuni sofferenze, speranze, gioie e voglia di riscatto, sono vincoli indissolubili nel tempo. Per questo abbiamo, sempre, considerato gli emigrati parte integrate del popolo sardo. Dei cittadini sardi non residenti, ma che con il loro sapere contribuiscono ad accrescere il livello culturale del nostro popolo con esperienze e conoscenze originali e innovative. Una ricchezza che dobbiamo custodire gelosamente.
Ed è in giornate come oggi, durante le celebrazioni di SA DIE, che siamo chiamati a prendere coscienza di quanto sia opportuno approfondire l’apprendimento della nostra storia per continuare a crescere. Una storia che prende avvio da un lento processo di formazione del sentimento di unità del popolo sardo, che inizia a formarsi da quando genti provenienti dall’Etruria, dalla Spagna, dall’Africa, dall’Egeo cominciarono a sbarcare nelle nostre coste e a dare origine alle popolazioni sarde, diversissime le une dalle altre, ancora oggi ravvisabili nelle differenze fisiche e caratteriali dei campidanesi, degli ogliastrini, dei barbaricini, dei galluresi, dei logudoresi e di quant’altri formano la società odierna.
Una unità rafforzata dalla “pax romana”, che in realtà fu una vera e propria dominazione militare. Contro questa dominazione si oppose il primo eroe nazionale sardo, Amsicora, che tentò di unire il suo popolo in un anelito di libertà contro l’invasore; dando vita ad un primo sussulto unitario dei sardi. La successiva sconfitta di Cornus, dove perì il figlio Josto lasciato al comando delle operazioni belliche, pose fine al sogno unitario dell’eroe. Così entrammo nell’alveo universale della latinità, per lingua e modi di vita fino alle soglie del passato millennio.
Nel Medioevo, conquistata l’autonomia dall’Impero di Bisanzio, nel frattempo entrato in crisi, l’Isola acquisì una propria sovranità sotto forma di quattro regni giudicali di Càlari, Torres, Gallura e Arborèa. Le ataviche rivalità posero i giudicati in continua guerra fra loro, fino all’autodistruzione e all’annichilimento delle potenziali e promettenti nazionalità che si andavano creando all’interno dei quattro Stati indigeni. A combattere contro queste divisioni emerse in quegli anni di esperienza giudicale una delle figure più luminose della nostra storia patria, Eleonora d’Arborea. Una donna che seppe battersi per l’unità del popolo sardo, cercando invano di unire sotto un’unica bandiera tutta la Sardegna. A lei dobbiamo lasciti quale un corpo di leggi scritte, il secondo codice dopo quello di Giustinianeo, la Carta de Logu, passato alla storia come uno dei primi fulgidi esempi di Costituzione al mondo.
Terminato il periodo giudicale, ci fu l’avvento dei Catalano-Aragonesi che per realizzare una propria ambiziosa espansione commerciale mediterranea attraverso la cosiddetta “rotta delle isole” con lo scopo d’accaparrasi i ricchi mercati del Vicino Oriente, fecero nascere il 19 giugno 1324 quel Regno di Sardegna il quale, per una strana sorte del destino, nel 1720 ha varcato il mare; si è ampliato nei confini inglobando il Piemonte, la Savoia , il Nizzardo e la Liguria; ha condotto per tredici anni il Risorgimento italiano annettendosi per guerra o plebiscito tutti gli Stati peninsulari; ha cambiato il nome nel 1861 in Regno d’Italia e oggi, per mutamento costituzionale, dal 1946 si chiama Repubblica Italiana.
Nasce proprio nel periodo Catalano-Aragonese la storia parlamentare della Sardegna. Per quanto inizialmente esplicò una funzione principalmente di recepimento della volontà del sovrano, ebbe nel tempo una importanza crescente fino a divenire sede di rappresentanza e di discussione delle politiche riguardanti il governo del territorio e il rispetto dei diritti del popolo. Un Parlamento, insediatosi a Cagliari nel 1355, e che sin dalla sua genesi si inserì nel filone delle poche realtà parlamentari, che già operavano in paesi europei, potendo a buon titolo essere considerato una delle più antiche testimonianze di questa istituzione.
Alcuni secoli dopo, con la formazione degli stati nazionali che nel 1800, sull’onda di quanto sta avvenendo a livello europeo, si apre anche in Sardegna il dibattito sulla forma dello Stato, se ad ordinamento centralista o federativo. Nel confronto fra gli intellettuali sardi prevalse la tendenza a conquistare una forma di governo autonoma, in uno Stato che già allora si ipotizzava federalista. Il ragionamento era fondato sulla specificità della Questione Sarda. Specificità che allora si voleva all’interno o, per alcuni , distinta da quella Meridionale.
Nacque l’esigenza di creare intorno al cenacolo di eminenti figure culturali e politiche dell’Isola una coscienza di popolo che si era sopita o addirittura mancava nell’opinione pubblica sarda. Fra tutti emersero Giovanni Battista Tuveri e Giorgio Asproni che costituirono la punta avanzata del pensiero federalista sardo, dando origine con le loro opere ad una embrionale forma di sardismo che troverà riscontro poltico nel secolo a venire. In questo contesto, grande influenza nella formazione del pensiero federalista sardo ebbe la figura di Carlo Cattaneo; cui soprattutto l’Asproni faceva spesso riferimento. Ma, fu in gran parte la produzione letteraria di Tuveri a far conoscere ai sardi il valore dei concetti di unità e autonomia se trasfusi in azione politica concreta. Tuveri, più di altri, contribuì a formare quella coscienza di se stessi, che sino ad allora i sardi sembravano aver dimenticato.
Nel XX° secolo alla Sardegna si aprono nuovi scenari. Dopo i fatti sanguinosi che all’inizio del secolo segnarono le lotte di contadini e operai nell’Isola, venne posto in discussione l’assetto unitaristico dello Stato per propugnare forme di decentramento autonomistico e federalista che ebbe punte anche separatistiche. In questi anni difficili fu l’attivismo di figure come Attilio Deffenu e Angelo Corsi, entrambi di estrazione socialista, e dell’Avvocato Umberto Cao di San Marco a tenere in vita il dibattito sui valori dell’autonomia e del federalismo per i sardi.
Da un opuscolo del deputato, e indimenticabile sindaco di Iglesias, Angelo Corsi prese spunto il manifesto programmatico di Macomer del 1920, curato da Lussu e De Lisi, che creò i presupposti per la nascita del Partito sardo d’Azione, avvenuta nell’aprile del 1921, e che passò alla storia per le notevoli assonanze con la Carta del Carnaro ispirata da Gabriele D’Annunzio dopo l’impresa di Fiume. Negli stessi anni Camillo Bellieni, ritenuto la mente più illuminata del pensiero sardista, propugnava la nascita degli Stati Uniti d’Europa, come entità formata da popoli e nazioni. Grazie ai suoi scritti il pensiero sardista ebbe respiro nazionale e internazionale, collocandosi in una cornice europea.
Una coscienza di sé che durante lo sforzo bellico della prima guerra mondiale i sardi, la gente comune, accrebbero e consolidarono acquisendo la consapevolezza di essere popolo e nazione, avendo in comune storia, lingua, territorio e tradizioni. Mai come durante la vita in trincea i sardi capirono l’importanza di essere uniti. Quando i fanti della mitica Brigata Sassari muovevano dalla loro postazioni verso il nemico, in difesa della Patria comune, era un popolo che avanzava con tutto il proprio carico di consapevolezza che quell’unità, tradotta nel momento del bisogno, si trasformava in un valore assoluto e sempre in una vittoria. Uomini che prima della grande guerra non erano quasi mai usciti dal proprio contesto comunale, con l’evento bellico scoprirono di abitare un universo, la Sardegna, fatto di tante piccole comunità come la loro. Comunità che condividevano la stessa identica storia fatta di sacrifici comuni e comune amore per la propria terra, famiglia e tradizioni.
Al termine della Seconda guerra mondiale, alla ripresa della vita democratica, si rinvigorì il movimento autonomistico sardo che trovò uno dei momenti più esaltanti nella Consulta regionale per la scrittura dello Statuto di Autonomia. Statuto adottato nel febbraio del 1948, e che subì una involuzione nel conferimento di prerogative autonomistiche, rispetto alle attese della vigilia, in quanto nel frattempo era mutato il clima di grandi aperture verso forme ordinamentali decentrate che aveva influenzato la precedente adozione dello Statuto siciliano.
Emilio Lussu ebbe modo, fra i primi, di esprimere metaforicamente la sua delusione riferendosi alla famiglia dei felini: “ Ci aspettavamo un Leone, è arrivato un Gatto.” Sta forse in questa delusione dei padri della nostra autonomia, che avevano intuito da subito le ragione di uno Statuto contrassegnato da più ombre che luci, il giudizio su questo fondamentale strumento di governo della nostra terra.
Nel successivo 1949, con l’elezione del primo Consiglio Regionale della Sardegna, ebbe inizio il percorso delle nostri istituzioni autonomistiche.
Una data fondamentale il 28 di maggio prossimo, perché cade il sessantesimo anniversario dalla seduta inaugurale di insediamento del primo Consiglio regionale. Una tappa importante che in questo inizio della XIV° Legislatura consiliare vogliamo adeguatamente ricordare con una cerimonia significativa. Vogliamo cioè allacciare un filo conduttore tra le speranze e il trepidante clima di attesa che albergava negli animi dei primi legislatori regionali, e il popolo sardo che guardava loro con fiducia, e la situazione odierna: con un Consiglio regionale pronto a ridisegnare, con un progetto originale, moderno e avanzato in senso autonomistico, la propria Carta di specialità.
Questa fondamentale riforma rappresenta un’esigenza ineludibile, fortemente sentita dalla società sarda, per raggiungere nuovi traguardi di sviluppo e benessere sociale, alla quale questo Parlamento non può e non vuole sottrarsi.
In sintesi molto si è discusso, e si discute, se in questi oltre sessant’anni di autonomia lo Statuto di specialità abbia assolto in pieno alla sua funzione di guidare il popolo sardo verso traguardi di prosperità e benessere. Dopo gli anni dell’entusiasmo per la ricostruzione, caratterizzati dai due Piani di Rinascita degli anni cinquanta e sessanta, che portarono alla nascita di un tessuto industriale con l’abbandono di attività storiche della pastorizia e dell’agricoltura, seguirono gli anni della recessione economica e di una ciclicità di crisi del comparto industriale e produttivo. Quest’ultime, legate molto anche alla nostra particolare condizione geografica.
Molti hanno parlato di fallimento dell’esperienza autonomistica. Ma, forse, il giudizio è ingeneroso. Quelli dell’esperienza autonomistica sono stati, infatti, anche anni di grandi progressi e conquiste civili, sociali e culturali per il nostro popolo.
Sarebbe più corretto parlare di mancata realizzazione delle molte aspettative che si erano venute a creare intorno alla nascita dell’istituto autonomo. Certo è che nei nostri giorni prevale diffuso il sentimento che ci porta universalmente a condividere la necessità che la nostra specialità venga riscritta attraverso un novello patto con la Repubblica, soprattutto alla luce delle odierne riforme destinate a conferire un nuovo assetto costituzionale allo Stato in senso federale.
E questa è storia attuale. Quella che più direttamente ci riguarda e coinvolge. Siamo noi oggi che dobbiamo chiederci se la bellezza delle nostre tradizioni e l’importanza del nostro patrimonio artistico e culturale, debbano essere i pilastri su cui poggiare la nuova specialità sarda. Dove vogliamo andare, quale avvenire ci vogliamo costruire al di là di una contingente legislatura, questi i temi di fondo sui quali confrontarci perché la presente sia, finalmente, la legislatura costituente. Il nostro lavoro dovrà essere aperto al contributo di tutti, per riscrivere assieme le regole del nostro essere popolo e nazione all’interno della Repubblica italiana.
Quelle regole, per intenderci, che dovranno dare ai sardi uno STATUTO DI AUTONOMIA capace di guidare i destini del nostro popolo verso un futuro da protagonista delle proprie scelte in Italia e in Europa.