CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA
XII legislatura

Seduta straordinaria del Consiglio regionale per condannare gli atti intimidatori a politici, imprenditori, sindacalisti


Cagliari, 14 gennaio 2003 - Il Consiglio regionale si è riunito, in seduta straordinaria, per condannare gli atti intimidatori a politici, imprenditori e sindacalisti avvenuti in questi ultimi tempi.

I lavori sono stati aperti dal presidente Serrenti che ha pronunciato un breve intervento, che inviamo integralmente.

Onorevoli Colleghe, Onorevoli Colleghi,

Abbiamo ascoltato con grande interesse e partecipazione gli interventi delle personalità che hanno dato un contributo fondamentale al dibattito che nella società sarda si va sviluppando intorno a fatti in qualche modo inediti. Le diverse sensibilità politiche, culturali e sociali hanno trovato un importante momento di sintesi e di unità nella condanna di quella che appare una strategia di attacco alla democrazia e all'autonomia. Non si potevano nutrire dubbi che fosse diffusa la ripulsa della violenza e del terrorismo come mezzi per cambiare la società, ma il sentirlo confermare con tanta unanime forza è segno di crescita del popolo sardo e delle sue classi dirigenti.

In quest'aula che rappresenta idealmente l'unità dei sardi non si può non esprimere, dunque, un profondo compiacimento per la compattezza con cui le classi dirigenti sarde hanno condannato e respinto gli attacchi criminali degli ultimi tempi. Il richiamo improvvido, fatto dagli anonimi attentatori, alle situazioni di grave patimento sopportato da larghi strati di lavoratori non ha avuto alcuna udienza né comprensione, fossero esse palesi o nascoste.

Testimonianza questa non solo dell'isolamento dei criminali ma anche della loro estraneità ai processi dialettici in atto nella vita politica e sociali della Sardegna. È capitato spesso nella nostra storia che i contrasti e i conflitti interni si siano ricomposti di fronte agli attacchi esterni.  Quelli in atto oggi sono o comunque sono vissuti come incursioni esterne, e questo comune convincimento è il primo segnale del fallimento anche progettuale degli anonimi malfattori cui nessuna verniciatura ideologica può dare diversa dignità.

Ciò non vuol dire, va da sé, che il loro isolamento e la loro estraneità siano di per sé un antidoto alle minacce per la società sarda, per la sua democrazia e per l'autonomia. Per il momento, gli apprendisti stregoni che ambiscono al titolo di terroristi, hanno eletto la Sardegna a terreno di scorrerie per le loro arcaiche ideologie di inattuabile metabolizzazione da parte del corpo sociale, culturale e politico dell'isola. Non per questo la loro pericolosità va sottovalutata.

La scalata alle intimidazioni è in grado di creare da un lato un clima di paura e dall'altro di compromettere gli spazi di democrazia, creando illeciti sospetti di contiguità fra questi criminali e movimenti politici e culturali che fanno della contestazione pacifica al sistema la loro bandiera.

D'altra parte, l'estensione degli obiettivi e, di più, la loro selezione tende ad alimentare una ripartizione della società sarda fra quanti sono eletti nemici mortali dei terroristi, e quindi bersaglio delle azioni, e quanti, per essere fuori dalla loro mira, corrono il rischio di esser considerati se non affini almeno tollerati. Un disegno criminale che va respinto con tutta la forza di cui siamo capaci.

Del resto, le dure reazioni e la unanime ferma condanna degli atti intimidatori e degli attentati danno conto della impermeabilità della democrazia e dell'autonomia in Sardegna alla confusione fra malessere sociale e scorciatoie eversive. Ma non possiamo, in coscienza, dare per scontato che quanto è oggi sia anche domani. Il cosiddetto malessere è un contenitore in cui fragilità economica si mescola a fenomeni di giustizia negata, agli effetti perversi della ottusità burocratica, al lento morire dei villaggi, all'eclissi dei progetti di vita e a un'altra serie di elementi di disagio materiale e immateriale.

Al di là della polemica che oppone parti politiche, sindacali e sociali che comunque rappresenta un motore di crescita, è difficile negare che la nostra quotidianità sia oggi quantitativamente migliore di qualche decennio fa, quando le spinte eversive che esistevano altrove  qui non avevano attecchito. Ed è difficile non riconoscere come i fenomeni più gravi originati dal cosiddetto malessere non si producano nelle zone più povere dell'isola e come, semmai, i centri interessati se non opulenti sono fra i meno poveri. Segno che le vecchie spiegazioni di matrice economicista sono ancora più inaffidabili di sempre.

I gruppi eversivi di oggi hanno spiattellato una indigeribile paccottiglia ideologica e si sono mostrati del tutto inadatti a riconoscere e capire gli elementi di quel malessere, ma non è detto che così sarà sempre.  Così come non è detto che le classi dirigenti sarde debbano limitarsi a sperare che questo non avvenga, al massimo operando perché il malessere economico sia sempre più ridotto.

Noi abbiamo di fronte diverse strade per intervenire, lasciando da parte quella, che non è di nostra competenza, della decisa repressione dei fenomeni di violenza parapolitica che oggi hanno originato questo nostro dibattito. E tutte le strade portano alla necessità di stabilire una profonda sutura fra gli elementi che compongono il quadro del sofferenza della nostra società e del suo profondo disagio.

Un quadro che, ormai, è sotto gli occhi di quanti vogliono vedere, è quello del rapporto non risolto fra la Sardegna, lo Stato e l'Unione europea. Quando si afferma che la nostra isola ha avuto più benefici che danni dallo Stato e dall'Unione europea si dice una cosa che ha un grado medio di verità. Complessivamente è giusto. Ma esistono settori estesi della nostra società che non possono condividere un simile giudizio e, anzi, lo contrastano. I processi economici europei e i loro riflessi in Italia hanno inciso anche negativamente sulla pastorizia, creando sacche importanti di impoverimento; la politica statale di tagli dei servizi primari, messa in atto da almeno un decennio, hanno provocato un depauperamento di decine di piccoli paesi con conseguente fuga di cittadini.

Poco importa a questi settori del popolo sardo che il loro sacrificio contribuisca alla crescita economica e sociale di altri settori. Si creano inevitabilmente fasce di popolazione, quanto grandi è anche compito nostro definire, cui non si può chiedere di pazientare indefinitamente e che non possono essere tacitate con la promessa di occupazione o di chi sa quale compensazione economica. Dobbiamo rispondere a questioni in cui l'economia si intreccia con la sfera dei diritti individuali e delle comunità e dobbiamo attrezzarci con tutta fretta affinché a queste questioni, noi Regione per la parte che ci spetta, lo stato e l'Unione per la parte di loro spettanza, siano date risposte certe.

L'alternativa è che, quanti sentono di non aver niente da perdere, cedano alla seduzione delle scorciatoie e delle promesse della palingenesi sociale. Non più attraverso le armi della democrazia e delle battaglie pacifiche.

Onorevoli colleghi,

Ci troviamo, dicevo all'inizio, di fronte a un fenomeno che la Sardegna non aveva conosciuto con queste forme di virulenza e di pericolosità. Forse c'è del giusto in quanti sospettano che la crisi della politica, la carica di litigiosità esistente e le tentazioni di reciproche delegittimazioni possano costituire, fuori e contro le intenzioni, il brodo di coltura per i violenti. Ma è un sospetto che è alla nostra portata allontanare e sconfiggere. L'unità raggiunta contro questi fenomeni di violenza eversiva può essere conservata e messa in atto anche per risolvere i mali storici della nostra Isola. La dialettica politica, sociale e culturale, anche nelle sue forme più ruvide, non esclude il dialogo e la ricerca del bene comune del nostro popolo.

È la risposta più forte e decisa, questa, che possiamo dare a chi, nel suo folle disegno di dividere il popolo sardo, pensa di poter attentare alla democrazia sarda e alla sua autonomia.

On. Efisio Serrenti


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