CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA
XII legislaturaIl saluto del presidente Serrenti al Capo dello Stato
Sassari, 4 febbraio 2004 - Il presidente del Consiglio regionale, Efisio Serrenti, nel corso della solenne cerimonia che si è tenuta a Sassari, nel palazzo Sciutti, in occasione della visita ufficiale del presidente della Repubblica, ha rivolto al Capo dello Stato un breve cenno di saluto, che riportiamo integralmente.
Signor presidente,
in queste ore trascorse nelle antiche capitali dei Regni sardi di Arborea e di Torres Ella ha avuto certamente modo di percepire quanta stima il popolo sardo nutra nei suoi confronti. Consenta dunque a me di rinnovarle il senso di tale sentimento a nome del Parlamento regionale della Sardegna, erede delle antiche libertà giudicali e dell'indipendenza stamentaria.
La storia ha fatto sì che quelle libertà e indipendenza finissero e che, attraverso vicende secolari, la Sardegna conoscesse momenti di federalismo, di autonomia, di dipendenza assoluta e, di nuovo, di autonomia in una prospettiva di federalismo. Ci sono diritti storici cui nessuno può rinunciare, come quello del popolo sardo ad autogovernarsi autonomamente, e situazioni politiche di cui si deve prendere atto, come la necessaria convivenza di identità diverse all'interno di questo Stato.
Ella, signor presidente, rappresenta l'unità di una repubblica che si avvia, fra non poche contraddizioni, a riconoscere compiutamente tali identità attraverso forme di federalismo. Di questa repubblica ci sentiamo parte.
Non è un caso che la Sardegna come tale abbia partecipato alle spedizioni militari di pace in Kossovo e in Iraq, e lo abbia fatto con uno dei simboli fondamentali della sua identità, quella Brigata Sassari la quale allevò nel suo seno l'idea che fosse possibile riconquistare all'isola l'autonomia. Alla Brigata Sassari, al ritorno da Nassiryia dove ha lasciato una tragica testimonianza del valore dei suoi uomini, domani renderemo onore nella caserma Lamarmora, nel ricordo del caro maresciallo Silvio Olla.
A Lei non è ignoto, signor Presidente, l'attaccamento che tutti i sardi sentono nei confronti dei dimònios, dei sassarini. C'è, va da sé, un riconoscimento antico e recente del coraggio mostrato in guerra, ma anche, e forse soprattutto, un duplice ringraziamento per aver mostrato lontano dall'isola di essere non gente ma popolo.
La Sardegna, come altre regioni d'Europa del resto, soffre di una grave crisi economica di cui altri le hanno parlato, signor Presidente, nei termini più consoni alle personali sensibilità e cultura. Non esiste, però, fuori delle enfasi volte a un fine, un declino della Sardegna né più né meno di come non esiste un declino dell'Italia, come Ella a ragione va ripetendo.
Nessun declino, certo, ma crisi sì. Il problema è che esistono difficoltà congiunturali e difficoltà strutturali. Dalle prime si potrà uscire, presto o tardi, quando i primi sintomi di ripresa che volteggiano sull'Europa si manifesteranno in maniera importante. Si starà allora meglio, l'occupazione aumenterà, il prodotto interno crescerà; ma la Sardegna continuerà ad avere un differenziale di sviluppo che neppure un auspicato riconoscimento della sua insularità potrà colmare.
Il problema fondamentale, la ragione della crisi strutturale della nostra isola, sta nel basso tasso di autonomia che in parte ci è dato di avere e, in parte forse più grande, come sardi riusciamo ad esercitare. Troppe e spesso immotivate le fratture che un brutto concetto della politica crea nella nostra società, dal Parlamento regionale al consiglio comunale del più piccolo paese. Troppo rare le occasioni di unità e sempre legate, come nella nostra preistoria, alla resistenza ad assalti esterni piuttosto che al progetto del futuro dell'isola.
Non sono certo da sottovalutare questi momenti di unità, come è capitato anche in questi giorni, signor Presidente. La reazione istituzionale, politica e culturale è stata pressoché unanime; gran parte del mondo politico ha resistito alla tentazione della primazia e della diversità ad ogni costo.
Ma temo che, domani, di fronte a questioni non più di resistenza ma di progettazione, le divisioni avranno il sopravvento anche su problemi magari condivisi sia nella loro individuazione sia nelle loro soluzioni. E così, l'autonomia perde ancora il suo carattere di valore di popolo. Ciò non vuol dire assolutamente che dovremo rinunciare ad una più che decennale battaglia per l'acquisizione di tutte le quote di sovranità che sarà possibile. Anzi, sarà necessario intensificare il franco dibattito con lo stato per giungere quanto prima a una sua vera riforma federale.
A questo è legata la possibilità di fare della Sardegna una terra prospera e di avere con il resto dell'Europa reali rapporti di interdipendenza, ma anche di investire le future classi dirigenti sarde della enorme responsabilità di governare una società realmente autonoma, sempre meno dipendente dall'esterno.
Quanto ho avuto l'onore di dire, signor Presidente, è un aspetto della complessa realtà sarda che ho ritenuto giusto e onesto prospettarle da presidente di un Consiglio regionale che trovò, giusto 55 anni fa, le sue radici nella battaglia democratica e pacifica per l'autonomia. Quel che undici lustri fa sembrò ai più sufficiente e a non molti del tutto inadeguato, oggi va ripensato. Lo farà il prossimo Consiglio regionale che, mi auguro, avrà in Lei, signor Presidente, un attento suggeritore e difensore dell'autonomia e della identità dei sardi.
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