CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA
XII legislatura

Primo incontro delle Regioni insulari membri della CALRE. Intervento del presidente Serrenti


Cagliari, 2 maggio 2003 - Il presidente del Consiglio regionale, Efisio Serrenti, ha aperto i lavori del primo incontro delle regioni insulari membri del Carle. Vi trasmettiamo il testo dell'intervento del presidente dell'Assemblea sarda.

Signore, signori

Due fatti contraddittori hanno segnato in Europa la vigilia di questo nostro primo incontro: a firma del trattato che, con l'ingresso di dieci nuovi stati, sancisce il raggiungimento di una più alta unità europea e la profonda spaccatura dell'Unione di fronte a quella che, un mese e mezzo fa, era solo una prospettiva di guerra. La contraddizione è apparentemente in via di soluzione, come mostrano la concordia raggiunta ad Atene e la distensione dei rapporti successivi alla caduta del regime iracheno. La realtà è, a me pare, che entrambi i fatti hanno origine, e vi possono convivere, nella concezione che sta prevalendo della futura Unione europea come insieme di stati sovrani.

Il disaccordo su grandi questioni come la pace e la guerra non solo non contraddice questo tipo di costruzione ma gli è congeniale, poiché la sintesi delle posizioni, posto che sia possibile, percorre la via conosciuta della diplomazia tradizionale. Stati diversi e sovrani si incontrano per dirimere controversie come tradizionalmente si è sempre fatto, con una differenza: il luogo per la ricerca della sintesi è predeterminato nel Consiglio d'Europa, così come, in ambiti globali, lo è nel Consiglio di sicurezza dell'Onu. Il sogno che fu dei grandi europeisti del passato e, oggi, dei popoli a forte identità etnica e delle nazioni senza stato, di una Unione europea fondata sul federalismo si sta infrangendo contro la resistenza centralista degli stati nazionali.

Personalmente non mi stupisco della soluzione che il presidente della Convenzione, Valèry Giscard d'Estaing, ha inteso dare, nella bozza di Costituzione, alla questione delle istituzioni comunitarie. Francia, Spagna, Germania, Inghilterra, Italia possono anche dividersi su pace e guerra, ruolo dell'Onu e destini della Nato, non sul peso determinante che gli stati sovrani dovranno, secondo la loro visione, avere nell'Unione europea. E, soprattutto non si differenziano di molto sul ruolo predominante che, ancora nella loro visione, dovranno avere le cinque grandi potenze europee: il progetto giscardiano è stato approvato ad Atene da questi stati (e bocciato da altri 18); ciò non ha impedito al presidente della Convenzione di proporlo ugualmente, con la considerazione che i governi d'accordo con lui rappresentano la maggioranza della popolazione europea.

Di fonte a questo scenario nient'affatto rassicurante sulle sorti dell'unificazione europea, e pur cosciente della inadeguata possibilità che abbiamo di incidere sulle politiche degli stati di nostra appartenenza, io credo che l'incontro di oggi assuma una particolare importanza per la creazione di una intesa fra le assemblee legislative delle regioni insulari, tesa a salvaguardare e a rafforzare il nostro ruolo nella futura Unione. La caduta di Saddam Hussein e del suo regime non ha fugato le preoccupazioni sugli effetti che il conflitto in Iraq potrà avere nei rapporti tra i popoli della sponda europea del Mediterraneo e quelli della sponda africana e mediorientale di cultura e religione prevalentemente islamiche.

Il rischio è che sia rallentata la realizzazione del processo avviato nel novembre del 1995 dal Consiglio europeo di Barcellona e fondato sulla creazione di un'area euromediterranea di libero scambio, di un parternariato politico e di sicurezza, culturale e sociale fra i 15 stati della Unione ante-allargamento e 12 dell'area sud mediterranea. Entro il 2010, l'area di libro scambio dovrebbe interessare, come è noto, stati come l'Algeria, Egitto, Giordania, Israele, il futuro stato palestinese, Libano, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia la gran parte dei quali, sia a livello di governo sia a livello di opinione pubblica non nasconde ostilità nei confronti sia dell'amministrazione statunitense sia degli stati europei che l'appoggiano.

È urgente, dunque, che l'Europa recuperi e, meglio, reinventi una politica internazionale comune, in una prospettiva di sicurezza e di collaborazione fra le due sponde del Mediterraneo. Il che, come si diceva e come pare persino ovvio, non può essere se nella costruzione dell'Europa prevarranno il rafforzamento delle sovranità statuali e i processi di neo centralismo in atto in alcuni stati che, come la Spagna e l'Italia, nel passato si erano distinti per i processi autonomisti.

Quest'ordine di problemi ci riallaccia alla discussione in seno alla Convenzione europea, dove le due visioni dell'Europa si confrontano con nettezza di posizioni, dando, a chi osserva da spettatori i lavori, la sensazione che gli stati più piccoli e meno influenti dovranno, alla fine, accettare l'architettura europea decisa dagli stati più forti, quelli che sentono di aver più da perdere dalla cessione di sovranità all'Unione sì in materia di politica internazionale, ma anche di difesa, sicurezza e, in genere, di competenze non legate all'economia.

È una questione, questa, che si intreccia a fondo con i tempi principali di questo incontro, i temi, voglio dire, delle prospettive regionaliste della costruzione europea e quelli delle politiche rivolte alle realtà insulari della nuova Europa. Non si può tacere che le posizioni più gelosamente tese alla conservazione della massima sovranità agli stati coincidono con due tendenze fra loro complementari: la prima è a concentrare i poteri nei governi statali anziché nei parlamenti, europeo, statali e regionali; la seconda è a misconoscere le nazionalità e le regioni come partner dell'Unione, al fianco degli stati, ma con uno statuto definito di prerogative autonome.

E vale anche la pena di ricordare che in questo contesto le questioni insulari rischiano di essere ulteriormente marginalizzate. Ciò riguarda sia le regioni insulari dotate di autonomia legislativa sia, a maggior ragione, le altre che, pure, in una evoluzione regionalista dell'Unione potrebbero avere un riconoscimento delle loro aspirazioni all'autonomia, oggi negate, e comunque limitate, dalle strutture costituzionali dei rispettivi stati.

Sta di fatto che i primi articoli del progetto di Costituzione non menzionano il riconoscimento delle identità e delle competenze regionali, se non in maniera molto indiretta, come fare il sesto comma dell'articolo 9, laddove, riconoscendo l'identità nazionale degli stati membri, sembra affermare il rispetto dell'organizzazione dei poteri regionali e locali degli stati stessi. Né al momento è previsto lo sviluppo in alcun modo del criterio di insularità affacciato, sia pure in forma debole e marginale, nell'articolo 130 del trattato di Amsterdam, oggi articolo 158 del Trattato dell'Unione.

In regioni come la Sardegna, la specialità della autonomia è strettamente correlata al fatto che essa sia un'isola e che questo suo status abbia consentito il radicamento di una civiltà peculiare, articolata in una originalità di lingua, cultura e storia. Ed è abbastanza evidente che il rafforzamento dell'autonomia è strettamente legato alla risoluzione dei problemi posti dal nostro essere isola. Ma sarebbe imprudente pensare che un appianamento dei problemi possa esserci nell'ambito della dialettica Sardegna-Italia per quanto ci riguarda e, più generalmente, regione-stato nazionale.

La possibile marginalizzazione dell'insularità in quanto questione rilevante per lo sviluppo equilibrato della nuova Europa rischia di essere una conseguenza anche del processo di allargamento che si concluderà nella primavera dell'anno prossimo. La stessa seconda relazione intermedia sulla coesione economica, presentata dalla Commissione il 30 gennaio scorso, mette le mani avanti su questo argomento. Secondo il documento, l'ingresso in Europa dei dieci nuovi stati produrrà un incremento molto alto delle disparità economiche all'interno dell'Unione e uno spostamento geografico di tali disparità.

Nell'Unione di domani, il 25 per cento della popolazione vivrà in regioni con un Pil pro capite inferiore al 75 per cento; in quella attuale a 15 membri, la percentuale è pari al 18 per cento. Dei 116 milioni che vivranno con un pil inferiore alla media europea, sei staranno nei dieci paesi di nuova acquisizione. In altre parole, il 60 per cento delle regioni che godranno delle misure dell'Obiettivo 1 apparterranno ai dieci nuovi membri dell'Unione. Appare evidente che il processo di allargamento rischia di avere un duplice effetto: Da un lato vi sarà una riduzione del peso demografico delle isole nel complesso della popolazione europea. Dall'altro vi sarà una crescente continentalizzazione del territorio, nel quale, del resto, le principali direttrici realizzate e in corso di progettazione delle linee transcontinentali di comunicazione ignorano già oggi le regioni insulari.

Anche sulla base di queste considerazioni, incontri come quello nostro odierno rivestono una grande importanza. Per il nostro essere, oltre che isole, regioni legislative, a buon diritto possiamo considerarci una avanguardia dell'intero fronte regionalista europeo, nel rivendicare uno status definito all'interno della costituzione europea. E, insieme, nel rilanciare le buone ragioni della insularità come dato permanente di diseconomie da compensare. Personalmente, ma credo di essere in buona compagnia, ritengo che l'insularità non sia solo un handicap, che pure esiste e che l'Unione deve aiutarci a superare, ma anche una opportunità per noi che nelle isole viviamo e per l'intera Europa che può trarre vantaggio dal nostro sviluppo di popoli e nazionalità di confine, veri e propri snodi della cooperazione intereuropea e fra Europa, Africa e Medio Oriente.


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