CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA
XII legislatura

Emigrazione ed immigrazione, convegno all'Università di Hofstra (New York). Intervento del Presidente del Consiglio, Efisio Serrenti


Cagliari, 11 ottobre 2002 - Intervento del Presidente del Consiglio Serrenti in occasione del convegno, tenutosi nella città di New York, all'Università di Hofstra. 

Signore, signori

il tema di questa tavola rotonda, organizzata nell'ambito degli incontri con la comunità italiana in occasione della Giornata di Colombo, per me, figlio della lontana Sardegna, una piccola isola, al centro del lontano Mediterraneo, assume un valore particolare.

I problemi legati all'emigrazione e, di conseguenza, all'immigrazione, in questi ultimi tempi hanno assunto particolare importanza, per i paesi più industrializzati, diventati meta ambita, terra promessa, per molti milioni di uomini, che non hanno alcuna possibilità di vivere nelle loro terre d'origine.

L'emigrazione è una necessità, specialmente per i più poveri, una dura realtà con la quale, noi sardi, siamo costretti a convivere da sempre.

Nella nostra isola vivono, attualmente, meno di un milione e seicentomila sardi; ma almeno altri seicentomila hanno lasciato le loro famiglie, per cercare un lavoro, una possibilità di riscatto sociale, anche lontano dalla loro terra.

L'emigrazione è l'ultima speranza, quando la situazione economica è difficile, quando le condizioni politiche impediscono un futuro dignitoso.

E' sempre stato così. Anche la libera America è frutto di esperienze, speranze, culture venute da lontano, portate da uomini e donne che cercavano la libertà dal bisogno, ma che, spesso, fuggivano anche da regimi illiberali ed antidemocratici.

In Sardegna la democrazia è, da tempo, una realtà consolidata, ma è ancora molto forte la richiesta di una maggiore autonomia politica oltre che amministrativa. I sardi, infatti, chiedono che venga riconosciuto come la nostra, particolare, situazione geografica, culturale, linguistica e storica, ci rende più una nazione, che non una semplice parte del più ampio Stato italiano.

Uno Stato che abbiamo fortemente voluto e contribuito a realizzare, rinunciando ai nostri diritti ed alle nostre prerogative (il Regno d'Italia è figlio del più antico Regno di Sardegna), e che abbiamo valorosamente difeso, anche con la vita di decine di migliaia di nostri giovani, nelle guerre di indipendenza e nei due conflitti mondiali.

Il sistema economico isolano, invece, da almeno un secolo, non è in grado di dare, al popolo sardo, risposte concrete, in termini di crescita del prodotto interno lordo, di nuova occupazione, di stabilità dei posti di lavoro esistenti. Così come non è in grado di favorire la ricerca, l'affermazione della nuova economia, con tutto il suo innovativo bagaglio tecnologico.

Molti sardi, quindi, hanno dovuto cercare altrove quel lavoro che non è stato loro garantito. Sono andati lontano, giovani e meno giovani, operai e professionisti, ricercatori e studiosi. Molti sono venuti anche negli Stati uniti, meta ambita per chi ha idee, preparazione professionale, elevate capacità personali. E molti vi si sono fermati, raggiungendo posizioni di prestigio, solidità economica ed, in alcuni casi, anche la fama.

Conosciamo, quindi, bene, questo fenomeno. E ci rendiamo conto che la speranza di chi cerca un futuro meno difficile, molto spesso contrasta con gli interessi, con l'egoismo, di coloro che temono l'arrivo di molti "nuovi disperati".

Uso questo termine riferendomi a "uomini senza speranza", a coloro che non hanno alcuna reale possibilità di una vita normale, civile, serena, perché nei loro Paesi d'origine, troppo spesso, esistono situazioni socio-economiche particolarmente difficili, in moltissimi casi aggravate dalla mancanza di libertà o dalle persecuzioni, messe in atto per motivi politici o religiosi, nei confronti delle minoranze.

Siamo di fronte ad un problema, quindi, estremamente difficile, complesso, che può essere affrontato solamente con grande umanità, con grande altruismo e solidarietà; con programmi moderni e realistici, alla cui realizzazione devono concorrere tutti gli Stati, coinvolti in questa emergenza: quelli ricchi, industrializzati, evoluti, ma anche quelli meno favoriti.

Chi arriva nei nostri Paesi (ora che siamo usciti dalle grandi povertà e siamo liberi e democratici), deve poter godere dei diritti sociali dei quali godono, godiamo, tutti.

Non è possibile pensare che chi lavora non abbia la stessa tutela previdenziale ed assicurativa della quale godono quelli che gli lavorano a fianco.

Deve essere combattuto il lavoro nero, ma non si deve impedire l'occupazione temporanea, il par-time, che in molti casi rappresentano una soluzione positiva anche per le imprese, per moltissimi operatori, economici, anche piccoli o piccolissimi.

Uno schema rigido, in un sistema economico dove esigenze e produzioni non possono essere, matematicamente, previste, è irrealizzabile.

L'inserimento degli immigrati, certamente, deve essere graduale, in modo da poter graduare anche il loro arrivo. Ma si deve tener conto anche del fatto che, al seguito di un nuovo immigrato, nel giro di poco tempo, arriveranno moglie, figli, genitori, fratelli, sorelle, parenti ed amici.

Occorrono, quindi, norme e regole moderne, perché i nuovi arrivati devono essere, in ogni caso, controllati, censiti, in regola con i permessi di soggiorno. Se si dovessero applicare, al contrario, norme eccessivamente rigide e penalizzanti, molti arriveranno violando le leggi, facendo pericolosamente aumentare il numero degli "sconosciuti", che vivono nell'ombra, spesso anche di espedienti, facile preda della malavita di ogni nome e colore.

I controlli, le limitazioni, in ogni caso, non possono arrestare il flusso migratorio. Emigrazione ed immigrazione diminuiranno solamente quando saranno profondamente mutate le condizioni sociali e politiche dei paesi in forte ritardo economico

Sviluppare le economie dei paesi più poveri è, quindi, una prima risposta, credo molto valida, al problema. La teoria dell'insegnare a pescare, invece di regalare il pesce, non ha, infatti, assolutamente perso il suo grande significato..

Ma far affermare la democrazia, il diritto, la libertà politica individuale è, forse, l'unica, reale, possibilità per risolvere questa grande emergenza, che sta assumendo dimensioni planetarie.

In un Paese libero, le disuguaglianze diminuiscono, esistono effettive condizioni per affermare le proprie capacità intellettuali, per veder valorizzate le qualità personali e professionali.

Quando le libertà individuali sono rispettate, infatti, è sempre possibile affrontare i problemi reali, le necessità concrete e cercare di porvi rimedio.

Ma uno Stato governato da satrapi e dittatori non ha alcuna possibilità di sviluppare la propria economia, di far migliorare la situazione sociale generale.

La forza delle idee, però, ha bisogno di molti aiuti per affermarsi, come ha bisogno di modelli da prendere ad esempio.

Una maggiore cooperazione internazionale, investimenti massicci e mirati nelle aree povere ed a rischio, nuovi programmi di sviluppo rispettosi della natura e compatibili con l'ambiente, l'apertura delle università e degli istituti di ricerca ai migliori figli dei Paesi più arretrati, possono essere un contributo concreto a questo, necessario, processo di evoluzione democratica.

Nelle università, nei laboratori di ricerca, nei circoli culturali, nei due dopoguerra del Novecento sono nati e si sono affermati quasi tutti i movimenti culturali, ideologici e politici, che hanno profondamente modificato il sistema mondiale.

La resistenza alle dittature, la ricerca di nuove frontiere della conoscenza, il superamento di vecchi schemi ideologici, la rivoluzione culturale degli anni sessanta (anche se quest'ultimo fenomeno ha, certamente, prodotto anche guai); la riaffermazione dei principi universali del rispetto e tutela dell'individuo, hanno contagiato anche gli Stati che sembravano impermeabili, ai valori di libertà e democrazia, che sono, invece, un patrimonio consolidato di molti dei Paesi più industrializzati.

Quei valori, ora, devono essere diffusi, condivisi, devono diventare la base sulla quale tutti i Paesi devono costruire le loro nuove istituzioni: più libere, moderne, evolute, durature.

Credo sia questa la vera sfida del terzo millennio, portare la libertà in ogni angolo della Terra, perché la libertà e la democrazia sono le condizioni essenziali per sconfiggere le povertà, i bisogni, le ingiustizie, i privilegi. E sono le uniche condizioni che permettono all'uomo di crescere e progredire.

Nella mia lontana Sardegna, nei momenti difficili, gli uomini veramente liberi si sono spesso uniti, per fare fronte comune ai pericoli incombenti, che molto spesso venivano da lontano. Il loro moto era "tutti uniti, insieme". Oggi come allora i problemi, le emergenze si possono affrontare, e superare, con quello stesso coraggio, con quella stessa determinazione, con quell'identico, glorioso, incitamento "forza paris".


>