CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA
XII legislaturaIl presidente del Consiglio regionale, Efisio Serrenti, è intervenuto nel dibattito sul federalismo e sulle riforme istituzionali che, da qualche tempo, sta caratterizzando il confronto tra le diverse parti politiche. Una risposta al sindaco di Quartu, Graziano Milia.
Il recente intervento del Sindaco di Quartu Graziano Milia, apparso sulle colonne dell'Unione Sarda, relativo ai temi scottanti e più che mai attuali del federalismo, va accolto con grande interesse e attentamente valutato nelle sue implicazioni politiche. In una fase delicata e convulsa come quella attuale, caratterizzata dall'assenza di dibattito, e semmai contraddistinta da beghe, risse e scontri intorno a questioni di piccolo cabotaggio, tornare a parlare di federalismo come questione politica concreta e senza facili demagogie contribuisce senza dubbio a dare un senso al confronto politico, e soprattutto consente di riportare la politica ad un disegno di alto profilo. Di questo lo ringrazio sinceramente.
Nel complesso l'intervento di Milia è condivisibile, e sotto questo aspetto ciò è tanto più significativo se si pensa che il Sindaco di Quartu è un autorevole dirigente regionale dei DS, vale a dire di un partito portatore di una cultura politica tradizionalmente assai tiepida nei confronti del federalismo e delle questioni etnico-nazionalitarie.
In particolare, sono senza dubbio da condividere le preoccupazioni di Milia intorno ai danni prevedibili che la sedicente riforma federalista che si sta cucinando in campo nazionale produrrà su un tessuto politico ed economico debole come la Sardegna. Il pericolo è drammaticamente reale, ma per motivi anche diversi e ulteriori rispetto a quelli paventati da Milia. Infatti, il vero rischio per la Sardegna è che la Grande Riforma partorisca il topolino, vale a dire produca un ordinamento a statalismo invariato in cui lo Stato <<decentra>>, cioè si sbarazza di poteri e competenze scomode, le attribuisce alle Regioni ma senza toccare la sostanza del potere della leva fiscale.
Stupisce rilevare come la truffa del cosiddetto <<federalismo fiscale>> si stia traducendo, di fatto, in un sistema di mera ripartizione di risorse, con la conseguenza che a livello locale porta alla previsione di maggiori tasse locali in aggiunta a quelle statali. Il nuovo subdolo decentramento fiscale impedisce insomma che le risorse siano dalle Regioni riscosse, incassate e poi devolute in percentuale allo Stato a titolo di contributo per l'adempimento delle necessarie finalità generali.
E' in questo quadro che va posto il problema della specialità. A partiredall'ultima famigerata Bicamerale, è ormai sin troppo chiaro il disegno statalista rivolto all'omologazione delle Regioni speciali, che anzi, per molti aspetti, sono ormai sorpassate dalle Regioni a statuto ordinario. Certo, è sin troppo facile sparare a zero sulla classe politica sarda, sulle sue tradizionali velleità fusionistiche, sulla sua incapacità di elaborare collettivamente un disegno riformistico unitario, coerente e forte.
Ma è pure vero che ci si scontra con ostacoli fortissimi, che vanno preliminarmente affrontati. Si pensi, ad esempio, alla rappresentatività dei sardi nelle istituzioni comunitarie. Stupisce, in proposito, la scarsa sensibilità intorno allo scandalo del collegio europeo Sardegna-Sicilia, che di fatto penalizza la Sardegna e dà un colpo mortale al fondamento della specialità. Si pensi, ancora, al sostanziale misconoscimento della insularità come oggettiva condizione di svantaggio e di sottosviluppo allorché siano assenti politiche e interventi di riequilibrio, come è ad esempio dimostrato dai gravissimi problemi legati alla continuità territoriale.
La specialità, l'insularità e il riconoscimento della Sardegna come minoranza etnico-linguistica rischiano di restare pure petizioni di principio svuotate di contenuto proprio perché in campo nazionale in realtà non si persegue alcun disegno federalista. Qualche esempio significativo, tra i tanti, può dimostrarlo: nei progetti di riforma costituzionale non c'è posto per il Senato delle Regioni; non è affrontato il nodo del rapporto Parlamento-Governo; non è toccato il sistema della composizione della Corte Costituzionale; non c'è posto per le competenze regionali in tema di small diplomacy, cioè del sistema delle relazioni estere a carattere locale e regionale con particolare riferimento allo spazio infracomunitario; ancora, è mantenuto il monopolio statalistico su beni culturali e istruzione universitaria, vale a dire su elementi di alta valenza simbolica e strategica.
La miopia centralistica e la protervia statalistica confermano che uno degli ostacoli alla via del federalismo è, prima ancora che politica, di natura culturale. Si moltiplicano i luoghi comuni sulla presunta incompatibilità tra specialità e federalismo, perché alla base si cela il disegno di omologare le Regioni, disconoscendo, cime nel caso della Sardegna, le ragioni strutturali della specialità e della specificità. Ragioni - e su questo non sono d'accordo con Milia - che affondano le radici anche nel riconoscimento dell'elemento etnico.
E forse è arrivato il momento di stabilire, una volta per tutte, che una avanzata visione dell'etnicità, collegata al disegno di un'Europa dei popoli e delle minoranze, è nemica di qualsiasi tentazione velleitaria al separatismo e all'isolazionismo. In una moderna visione di Stato federale differenziato il binomio specialità-etnicità acquista una vera e diversa pregnanza.
Si tratta di avere il coraggio di rivendicare per la Sardegna un moderno status di sovranità, di acquisire tutti i poteri originari e di delegare alle istituzioni nazionali e comunitarie i poteri residui connessi con gli interessi vitali comuni, quali moneta, difesa e giustizia. In questa prospettiva appare semmai anacronistico che in una condivisa visione di un'Europa multiculturale, policentrica e multietnica si neghi alla Sardegna l'attributo dell'etnicità, del resto strettamente connesso al riconoscimento delle radici nazionalitarie e della differenza linguistica.
La contrattazione di un nuovo Statuto può e deve essere condotta anche sulla base della nostra migliore tradizione federalista e delle grandi energie politiche e intellettuali che circolano in Sardegna. In questo senso, per elaborare finalmente una proposta forte, autorevole, originale e innovativa, nel quadro del necessario coinvolgimento trasversale di tutte le forze sensibili al federalismo, occorre davvero interrogarsi intorno ad una visione alta della politica e delle sue priorità, anche perché agli appuntamenti della storia la classe politica sarda ha effettivamente sempre parlato in torinese o in romano.
Elaborare una nuova forma della politica, e ripensare alla necessità di contrapporre al nuovo decentramento amministrativo una visione federalista ritagliata sui reali bisogni della Sardegna, diventa questione strategica ineludibile che deve coinvolgere tutte le forze politiche. In questo senso i sardi hanno l'occasione storica per dimostrare nei fatti che è necessario rivendicare una visione innovativa dell'autodeterminazione.
Il che significa pure, in altri termini, che in questo crinale storico si vedrà quali forze sono realmente federaliste e capaci di elaborare una politica che parla in sardo, e chi invece, al di là di generiche petizioni di principio, continuerà ad annacquare il dibattito e a ostacolare il diritto dei sardi a decidere di sé stessi.
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