CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA
XII legislatura"Polemica sulla lingua"
Cagliari, 11 dicembre 2000 - Le conclusioni alle quali sono giunti molti studiosi nel corso della seconda Conferenza sulla cultura sarda, che si è svolta sabato 9 dicembre scorso ad Arborea, hanno provocato non poche polemiche. Sull'argomento è intervenuto il presidente del Consiglio regionale, onorevole Efisio Serrenti, con un intervento pubblicato dai due maggiori quotidiani sardi:
Le recenti polemiche sulla lingua sarda in occasione della Conferenza di Ala Birdi consentono, e anzi impongono, alcune riflessioni di natura generale. Da troppo tempo in Sardegna si disserta di questioni linguistiche nella totale mancanza di un quadro politico generale di riferimento. L'attuale dibattito, come da copione, si impantana nella stessa incomprensione del fenomeno, ne dimentica le radici storiche, ne trascura la dimensione essenzialmente politica. Al contempo sembra che il problema della lingua sarda sia risolvibile interamente nel considerarla come pura questione glottologica, tecnica, accademica.
Ancora una volta, in Sardegna la storia si ripete. Noi sardi abbiamo sempre subìto la presenza invasiva dei padroni di turno, tutti accomunati dall'obiettivo politico di desardizzare l'identità isolana. Pur nella varietà delle situazioni storico - politiche, l'orientamento dominante si è sempre concretato in operazioni di scientifica spoliazione dei tratti identitari, al cui vertice si è sempre collocata la lingua.
La differenza tra la storia e il presente è probabilmente di natura quantitativa, ma segna irrimediabilmente il nostro destino. Negli ultimi tempi si è infatti assistito ad uno straordinario dispiegamento di forze e di mezzi informativi che non ha riscontro nel passato. Le nuove streategie della desardizzazione sono ancora più violente e pericolose perché pervasive e ammantate di una posticcia vernice che si spaccia per sardista.
I peggiori attacchi alla lingua e all'identità culturale del nostro popolo provengono insomma, e non a caso, dai nuovi profeti del sardismo. Con una differenza essenziale. Mentre ieri i nemici dell'identità combattevano allo scoperto, oggi questi si annidano addirittura tra i suoi formali sostenitori.
I danni sono sotto gli occhi di tutti. Senza una drastica rottura di tendenza, le nuove generazioni deculturate perderanno, tra l'altro, la possibilità di esprimersi anche in sardo. Perderanno cioè un codice fondamentale di coscienza dell'identità. Certo, sembra fin troppo facile ironizzare. Tuttavia è troppo semplicistico liquidare il problema affermando che le dimensioni di Internet, della new economy e del mercato globale sono governate da logiche in cui la lingua sarda è forse poco utile. Ma così si elude il reale problema.
Si tratta, insomma, di comprendere che il problema della lingua sarda è oggi, più che mai, un problema politico di più vaste dimensioni che rimanda ad alcune domande fondamentali: cosa vogliono essere i sardi nel mondo? In altri termini, quale ruolo oggi può giocare la nostra identità nell'era della globalizzazione? E infine: una realtà sempre più interdipendente, caratterizzata da crescenti spinte all'integrazione politica ed economica sovrannazionale, dall'omologazione tecnologica e dall'unificazione giuridica è ancora pensabile e interpretabile con le lenti della nostra identità?
Anche se può sembrare paradossale, in un mondo sempre più globalizzato le identità rappresentano il vero valore aggiunto che consente ai popoli di esistere, di riconoscersi e di contare. La controspinta alle ferree logiche dell'omologazione viene allora dal riemergere delle identità, dei popoli, delle culture.
La diversità è dunque una preziosa carta da giocare anche per la Sardegna.
Del resto, noi sardi abbiamo una storia, una cultura e una lingua di lungo periodo; abbiamo un territorio insulare che ci connota; abbiamo sviluppato una forte identità culturale in cui ci riconosciamo. Il problema è semmai definire meglio, e in termini moderni e innovativi, che coscienza abbiamo dell'identità. La percepiamo come un dato marginale, negativo, disperso e annacquato nel mare dell'identità nazionale italiana, oppure come un valore aggiunto che ci caratterizza pariteticamente rispetto alle altre culture?
L'identità dei sardi non è completamente assimilabile a quella italiana. Abbiamo una memoria storica diversa, percorsi culturali originali, una solida specificità linguistica. Siamo un popolo che può svolgere un proprio ruolo nell'Europa delle Regioni e nello Stato multinazionale italiano, che nonostante una sia pur debole retorica patriottarda, rappresenta ancora una sommatoria di identità diverse.
In questo contesto la lingua sarda rientra come problema politico nella definizione identitaria. Perdere il codice linguistico significa far perdere valore anche agli altri fili della nostra identità.
E' in questo contesto che occorre inquadrare le questioni che stanno emergendo nel dibattito attuale. A cominciare dall'affermazione secondo cui la lingua sarda, se davvero non è reperto museale, non deve aver bisogno di strumenti legislativi ad hoc.
In realtà tutte le lingue, non importa se maggioritarie o minoritarie, hanno bisogno di leggi di tutela e di valorizzazione e godono di cospicui finanziamenti per incentivarne e consolidarne l'uso.
Sotto questo profilo, la legge 26 da me firmata nel 1998, è uno strumento che si pone nel solco della legge nazionale sulle minoranze linguistiche che riconosce a pieno titolo il sardo e le sue varianti. Tuttavia, lo Stato italiano non destina alcuna somma per tutelare e valorizzare la lingua sarda e ciò si traduce, di fatto, in un disincentivo.
Per operare radicali inversioni di tendenza, una seria politica di impronta autenticamente sardista dovrebbe incentivare l'istituzione di cattedre universitarie di lingua e cultura sarda e di scuole, finanziare programmi radiotelevisivi dove si utilizzi il sardo e spingere affinché la nostra lingua sia pienamente utilizzata negli atti della pubblica amministrazione.
Certo, si tratterebbe di un'operazione che implica dei costi. Si pensi, in particolare, all'ipotesi di nuove assunzioni di esperti con il compito di redigere gli atti legislativi in sardo e di curarne la trascrizione durante l'attività consiliare. Ma questi posti rappresentano una seria polizza di sopravvivenza e di sviluppo per il nostro patrimonio identitario.
L'altra obiezione di principio largamente circolante riguarda il problema di quale variante utilizzare. Si tratta, a mio avviso, di una questione irrilevante. Non ha molto senso impegnarsi su un progetto di costruzione artificiale in vista di una standardizzazione della lingua.
In realtà, in Sardegna il 50% dei sardi parla il campidanese, mentre la produzione letteraria è largamente caratterizzata dall'uso maggioritario del logudorese. Queste due varianti, assieme, coprono il 90% dell'uso pubblico del sardo. Il restante 10% appartiene alle isole linguistiche, certo meritevoli di tutela ma non idonee a fare la koiné.
A di là di tali preoccupazioni di ordine accademico, mi sembra che non sia corretto sostenere una funzione artificiale di campidanese e logudorese. La scelta dell'una o dell'altra variante è determinata dall'uso concreto.
Di qui la necessità di sostenere e incentivare a tutti i livelli la lingua parlata e scritta. Di qui il problema politico di destinare a questo settore risorse non marginali, trattandosi di una questione sotto ogni profilo fondamentale.
Siamo di fronte alla scelta strategica in cui si decide se la lingua sarda deve continuare ad esistere come prodotto vivo e vitale, o ridursi progressivamente a reperto etnografico retaggio di un passato di cui, al massimo, coltivare la nostalgia.
Sotto questo profilo occorre anche aggiornare la legge 26, e rifinanziarla adeguatamente anche alla luce della nuova legislazione nazionale.
In conclusione, mi sembra di poter dire che le attuali polemiche sono il segno più evidente delle ataviche divisioni di un popolo incapace di decidere del proprio futuro. D'altra parte, per affrontare adeguatamente un problema così importante non è sufficiente una visione strettamente culturale, forse utile a finanziare alcune lobbies e a sollevare un inconcludente polverone retorico.
Occorre al contrario impostare la questione della lingua politicamente, fuori da inutili e dannosi scontri, per riaffermare le ragioni stesse della sopravvivenza dei sardi. Perché si esiste se si è portatori consapevoli della propria identità.
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